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È lecito decidere di morire? | Diritto | Eugenio Scagliusi

Eugenio Scagliusi

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È lecito decidere di morire?

È lecito decidere di morire?


Vivo o morto, Dead or alive, era la frase che accompagnava la foto dei ricercati sfuggiti alle maglie della giustizia, diventata un cult attraverso i western ambientati nella nuova frontiera americana intorno al 1800, con i cacciatori descritti nelle sceneggiature cinematografiche come pistoleri eroi romantici o killer senza scrupoli.

Il diritto di vita o di morte, riconosciuto dal diritto romano, è sempre stato associato, anche nella preistoria, alla facoltà di chi detiene ed esercita un potere assoluto di determinare la condizione dei suoi sottomessi.

La storia della civiltà ha visto evolversi l’idea ed il fondamento dei diritti dell’uomo fino ai tempi moderni, dove è sempre più attuale il dibattito, più che sul diritto, sulla libertà, sulla libera scelta del vivere o del morire. Oggi si discute sul diritto di assumere la decisione dell’eutanasia, confrontandosi sulle condizioni che legittimino la scelta del porre fine alla vita, ovvero, in opposizione, sul favorire piuttosto il diritto alla vita.

Le cronache hanno reso noti e comuni i casi di malati terminali aiutati nella scelta di cessare le sofferenze accelerando il momento del fine vita. Il confronto politico e sociale sulle tematiche del fine vita, sempre particolarmente accesso, è stato spesso alimentato da pronunzie dell’autorità giudiziaria che, in mancanza di fonti legislative regolatrici, ha dovuto dare risposte alle richieste di provocare la morte. Così quel confronto è diventato tipicamente giuridico, sulla sussistenza di un diritto a morire, sulla fattispecie dell’omicidio del consenziente, della istigazione o dell’aiuto al suicidio.

Era prevedibile che, dinanzi a vicende giudiziarie particolarmente complesse perché mancanti di una specifica disciplina di riferimento, dubbi e perplessità sulle importanti questioni di rilevanza giuridica approdassero dinanzi alla Corte Costituzionale, competente a garantire i diritti costituzionali rispetto alle norme applicabili alle questioni, in questo caso l’art. 580 del Codice Penale, punitivo della istigazione o aiuto al suicidio, anche in rapporto alla legge 22.12.2017, n. 219 sull’obbligo del consenso informato e del trattamento sanitario.

Il caso giudiziario

Il caso oggetto di forte interesse mediatico è quello dell’eutanasia praticata in Svizzera, perché impedita in Italia, da Fabiano Antoniano, noto come dj Fabo, costretto, a seguito di un incidente stradale, a fronte della piena coscienza, a gravi sofferenze derivanti dalle condizioni patologiche estreme ed irreversibili. Sembra che Fabiano, che aveva maturato la decisione di procedere ad eutanasia, avesse rifiuto la prospettatagli possibilità di interrompere l’aiuto respiratorio e l’alimentazione, pratica che, nonostante la sedazione, non avrebbe assicurato la morte celere ed indolore. La scelta era caduta sulla diretta iniezione endovena di un farmaco letale, praticata nella clinica svizzera e materialmente azionata dall’interessato con la bocca attraverso uno stantuffo. La persona che aveva agevolato l’esecuzione dell’eutanasia, accompagnando l’interessato in Svizzera, è stato rinviato a giudizio, imputato del delitto di istigazione e agevolazione a suicidio. Durante il processo è stato richiesto alla Corte Costituzionale di chiarire se l’art. 580 del Codice Penale contrasti con varie norme della Costituzione nella parte in cui (semplificando) punisce le condotte di aiuto al suicidio in alternativa alle condotte di istigazione, dunque a prescindere dal loro contributo alla determinazione o al rafforzamento del proposito di suicidio.

La questione giuridica di fondo è se la persona e le sue libere scelte di porre fine alla propria esistenza, anche in termini di decisione rispetto ai mezzi ed al tempo, abbiano la priorità rispetto alle esigenza dello Stato di garantire il diritto alla vita e al rispetto della vita privata (anche contrastando i suicidi, secondo le ragioni sottese dell’art. 580 C.P.) e del principio di inviolabilità della libertà personale.

La prima pronunzia della Corte Costituzionale

Interessata della questione, la Corte Costituzionale, con una prima pronunzia interlocutoria (del 16.11.2018, n.207), ha dapprima rinviato la propria decisione per consentire al Parlamento di intervenire sulla materia attraverso una specifica legge, pur precisando – tra l’altro – che il reato di istigazione e dell’aiuto al suicidio è volto a tutelare il diritto alla vita di quei soggetti che, in ragione della loro vulnerabilità e debolezza, necessitano di una più intensa protezione da parte dell’ordinamento, tale da scongiurare il pericolo di illecite interferenze da parte di terzi sulle scelte di persone malate, depresse o psicologicamente fragili.

Secondo la Corte, si richiede una attenta riflessione rispetto alle situazioni in cui possa venirsi a trovare il soggetto malato alla luce del progresso tecnologico successivo all’entrata in vigore del codice penale e della stessa Costituzione, con particolare riferimento ai casi in cui si tratti di “…una persona a) affetta da una patologia irreversibile e b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli”. Si tratta, evidentemente, di ipotesi in cui solo l’aiuto di una terza persona può coadiuvare il malato nel sottrarsi al mantenimento artificiale in vita, nel rispetto della sua volontà e alle sofferenze, fisiche o anche solo psicologiche, legate alla sua condizione irreversibile.

La Corte richiama al riguardo la intervenuta legge del 22.12.2017, n. 2017 che, recependo la giurisprudenza intervenuta in materia (legata agli altrettanto famosi casi Welby ed Englaro), riconosce a ogni persona capace di agire il diritto di rifiutare o interrompere qualsiasi trattamento sanitario, ancorché necessario alla propria sopravvivenza. Si tratta di una scelta che – osserva la Corte – per quanto accompagnata dalla somministrazione di terapie palliative, ivi compresa la sedazione profonda, non consentendo al medico di procedere ad eutanasia diretta, costringe comunque il paziente ad un processo più lento e potenzialmente doloroso, oltre che lesivo della sua dignità. Sicché, in tali ipotesi vengono messe in discussione le esigenze di tutela che negli altri casi giustificano la repressione penale dell’aiuto al suicidio, a fronte di una libera e consapevole volontà di porre fine alla propria esistenza per sottrarsi alle sofferenze fisiche e psicologiche ormai irreversibili, ostacolata tuttavia dal divieto penalmente sanzionato di interferenze altrui.

Per queste ragioni, la Corte ha ritenuto che “…il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce, quindi, per limitare la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Costituzione, imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita, senza che tale limitazione possa ritenersi preordinata alla tutela di altro interesse costituzionalmente apprezzabile, con conseguente lesione del principio della dignità umana, oltre che dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza in rapporto alle diverse condizioni soggettive…”. Su tale presupposti, la Corte ha suggerito al Legislatore di disciplinare organicamente la materia in ragione dell’altissima sensibilità etico – sociale che la contraddistingue e la necessità di precludere qualsiasi forma di abuso derivante dalla mancanza di idonea e completa regolamentazione, preclusa alla Corte, che ha rinviato la propria decisione definitiva al 24 settembre 2019 per consentire al Parlamento di assolvere alla propria naturale funzione.

Al Parlamento il compito di colmare il vuoto legislativo

Nel rinviare la questione nella competente sede legislativa, la Corte apre le porte del dibattito politco, poiché quello in esame è uno dei casi in cui decidere la questione di legittimità costituzionale coinvolge “…l’incrocio di valori di primario rilievo, il cui compiuto bilanciamento presuppone, in via diretta ed immediata, scelte che anzitutto il Legislatore è abilitato a compiere…”, rendendosi così necessario, “…in uno spirito di leale e dialettica collaborazione istituzionale, consentire al Parlamento ogni opportuna riflessione e iniziativa, così da evitare, per un verso, che, nei termini innanzi illustrati, una disposizione continui a produrre effetti reputati costituzionalmente non compatibili, ma al tempo stesso scongiurare possibili vuoti di tutela di valori, anch’essi pienamente rilevanti sul piano costituzionale”. Pur attraverso una rigida perimetrazione delle fattispecie in cui chiama il Parlamento ad intervenire, cioè i casi di “…persona affetta da una patologia irreversibile e fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti capace di prendere decisioni libere e consapevoli…”, la Corte ha chiesto alla politica di adeguare la legislazione vigente contemperando i valori di tutela dell’autodeterminazione e della dignità della persona.

Come per altre occasioni, nel tempo messo a sua disposizione la politica non ha saputo compiere le scelte di sua competenza. L’impressione è che larga parte del Parlamento non volesse assumersi le responsabilità sue proprie dinanzi a materia così complicata e che certamente divide, magari preferendo che ad occuparsene fosse proprio la Corte Costituzionale.

Così, il 24 Settembre scorso la Corte ha reso la sua decisione. Le motivazioni non sono ancora state depositate (al momento di andare in stampa, fine Novembre 2019, N.D.R.); tuttavia, in ragione della delicatezza ed importanza della questione, la Corte ha diffuso un proprio comunicato stampa ufficiale facendo sapere che ha ritenuto non punibili, ai sensi dell’art. 580 del Codice Penale, a determinate condizioni, “…chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.”.

Lo spazio per le scelte di politica legislativa rimane aperto, come la stessa Corte precisa nel proprio comunicato. Sta di fatto che, pur chiamandolo suicidio o aiuto al suicido o assistenza al suicidio, il risultato non cambia: il suicidio entra nel nostro ordinamento, in qualche modo legittimato. Ed il confronto, a questo punto, perde la peculiarità tecnico – giuridica per spostarsi negli ancora più imprevedibili ed impervi spazi delle diverse sensibilità etiche, proprie di ognuno, cui ovviamente i parlamentari, chiamati sostanzialmente a determinare gli spazi per l’eutanasia ed il suicidio assistito, non sono esclusi.

In attesa delle motivazioni della sentenza, rimane in rilievo la questione di carattere generale.

È lecito decidere di morire?

Il confronto tra le diverse visioni etico – sociali verte sul riconoscimento di un vero e proprio “diritto” di decidere il tempo del proprio morire quale atto di legittima autonomia personale. Pur partendo dal presupposto che il diritto e la tutela della vita sono fondamentali, si giunge a concludere che si tratta di un diritto limitato da una forma di autodeterminazione soggettiva. L’autodeterminazione diventa un principio paritetico al diritto di vita, senza più limiti. Emerge la contraddizione: la morte autodeterminata diventa negazione del diritto primario di vita. E la scelta culturale implicita è che il chiedere di porre fine alla propria esistenza sia una scelta a tutela della propria dignità. La dignità della persona umana salvaguardata e garantita per il tramite della soppressione della persona stessa.

Il tema, vasto e profondo, è particolarmente caro alla Chiesa Cattolica ed ai suoi fedeli, preoccupati di sostenere che dovere della società non sia quello di aiutare a morire chi è in difficolta, quanto quello di sostenerlo e curarlo. Il timore è che la depenalizzazione dell’aiuto al suicidio rischi di dare impulso all’interruzione della vita per qualsivoglia ragione. Ad essere sotto accusa un modello di società ed una mentalità di tipo utilitaristico e relativista, che valuta la persona umana in base all’utilità sociale che può produrre e, pertanto, non tutela adeguatamente la vita debole. Una modello antropologico che considera l’uomo come un essere assoluto, sganciato da altri valori di riferimento.

Invece la Chiesa, nei suoi numerosi documenti sul tema, ha sempre evidenziato come nell’imminenza della morte possa essere lecito decidere di rinunciare a trattamenti ormai inefficaci senza mai abbandonare il malato, che deve essere accompagnato con la necessaria palliazione, cioè attraverso trattamenti medici e infermieristici destinati ad alleviare i sintomi e a sostenerlo dal punto di vista sociale e spirituale.

In condizioni estreme, in presenza di dolori insopportabili e refrattari all’usuale analgesia, viene ammessa anche la sedazione profonda soppressiva della coscienza. È la risposta più adeguata al dramma della sofferenza, poiché il malato normalmente non chiede di morire ma di essere convenientemente assistito e amorevolmente accompagnato. Il malato si rivolge al proprio medico non certo per morire, ma per guarire; quantomeno, nei casi più estremi, per trovare sollievo al dolore attraverso idonee terapie.

Già nel Novembre 2017 Papa Francesco, rivolgendosi ai partecipanti al meeting del World Medical Association, ricordava che “…per stabilire se un intervento medico clinicamente appropriato sia effettivamente proporzionato non è sufficiente applicare in modo meccanico una regola generale. Occorre un attento discernimento, che consideri l’oggetto morale, le circostanze e le intenzioni dei soggetti coinvolti. La dimensione personale e relazionale della vita – e del morire stesso, che è pur sempre un momento estremo del vivere – deve avere, nella cura e nell’accompagnamento del malato, uno spazio adeguato alla dignità dell’essere umano”.


Dunque, la scelta del morire, riconoscendone addirittura rango di “diritto”, non è espressione di libertà, ma il suo opposto: perché la libertà si esprime attraverso la vita e le derive eutanasiche non costituiscono affatto forma di pietà, ma una forma di sua perversione, perché “…la vera compassione rende solidali al dolore altrui…” (Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, 66).

Senza trascurare che laddove si riconosca un “diritto”, occorre che su qualcuno gravi il dovere di attuarlo. E chi potrebbe accompagnare l’invocare il diritto di morire, se non un medico?

 
Implicazioni di deontologia medica

Sorge una ulteriore complicazione. Un atto medico finalizzato a procurare la morte contrasta con il senso della professione che, come recita il terzo articolo del Codice Deontologico, ha come dovere primario “La tutela della vita, della salute psico-fisica, il trattamento del dolore e il sollievo della sofferenza, nel rispetto della libertà e della dignità della persona, senza discriminazione alcuna, quali che siano le condizioni istituzionali o sociali nelle quali opera”. Su tale premessa valoriale, come può essere mai possibile, per un medico, usare la propria capacità professionale, la propria esperienza, la propria competenza, strutturate sul salvare e tutelare la vita, per assecondare non più un desiderio di vita, bensì una possibile volontà di morte del malato, fornendo assistenza al suicidio o addirittura causandone la morte eutanasica? È evidente che difronte ad una legge favorevole a qualsiasi forma anche velata di eutanasia, sarebbe inevitabile garantire l’obiezione di coscienza del personale medico. Questione non di poco conto, se solo si consideri il numero e l’importanza degli ospedali di ispirazione cattolica.

Anche a prescindere da ogni connotazione di tipo confessionale, nella vicenda rilevano i principi cardine della professione medica, risalenti a giuramento di Ippocrate e fino al Codice Deontologico attuale, che vieta, anche su richiesta del paziente, di effettuare o favorire atti finalizzati a provocarne la morte. Ci sarà, dunque, fatica nell’identificare gli eventuali soggetti cui spetterà il compito di prestare assistenza nella somministrazione di un farmaco letale, secondo quanto sta chiedendo sostanzialmente la Corte.

Nel maggio scorso la Federazione degli Ordini dei Medici ha elaborato un documento che richiama il fondamento della professione sanitaria proprio a fronte della prospettiva della introduzione del diritto al suicidio assistito nella sanità pubblica. Il documento apre una ulteriore riflessione rispetto alla possibile richiesta di provocare la morte, reclamandone il diritto. Viene posto in rilievo la incompatibilità del Codice Deontologico con una legge dello Stato e di una sentenza della Corte Costituzionale, ponendo il problema del rapporto e della prevalenza. Inoltre, evidenziando l’essenzialità della prestazione medica, si nutrono dubbi sul ritenere che possa risolversi la questione deontologica attraverso l’obiezione. Questa, infatti, pur tutelando gli operatori sanitari con la libertà di scelta, finirebbe con il privare il paziente bisognoso dell’esperienza e della professionalità di un notevole numero di medici, alcuni dei quali, obiettori, potrebbero ritenere, in scienza e coscienza, che quel determinato paziente abbia ancora possibilità di cura. L’incongruenza andrebbe risolta quantomeno riservando la possibilità dell’obiezione non già in maniera generalizzata (come per il caso della interruzione volontaria della gravidanza), ma sollevata motivatamente rispetto al coso concreto.

Urgenze sociali

Le conseguenze del modificare, nel comune contesto sociale, la percezione del significato reale della dignità delle persone, allontanando progressivamente il principio del diritto alla vita, del favor rei, su cui si fonda tutto l’attuale sistema di garanzie socio - assistenziali e di cura, sarebbero pericolose. Implicando profonde rivisitazioni sul cosa si debba intendere per “vita” e “qualità della vita”, tali conseguenze avrebbero effetto anche sull’organizzazione del sistema sanitario, costituzionalmente strutturato per garantire la cura (gratuita!) anche a soggetti ritenuti inguaribili perché affetti da patologie irreversibili. E dire che fino a qualche tempo fa (caso del c.d. “metodo Di Bella”) c’era chi ricorreva alla Magistratura perché il sistema sanitario nazionale garantisse cure antitumorali ancora sperimentali…

Una società incapace di vera solidarietà verso i più deboli decade in un nichilismo esasperato e distruttivo. Invece, una assistenza capace di sostenere adeguatamente chi è in difficoltà contribuisce a realizzare un mondo più vivibile perché più ricco di umanità.

Dunque, occorre che la politica faccia il suo compito aumentando le risorse in favore dell’assistenza sanitaria; avendo cura di individuare un numero maggiore di strutture sanitarie deputate all’accoglienza dei malati terminali (hospice); ampliando le possibilità di assistenza e di cure palliative domiciliari; prevedendo aiuti in favore delle famiglie dei malati, così da ottenere – ove possibile – il beneficio del lasciare il malato nel suo contesto abitativo e rendere ai familiari meno gravoso l’onere della cura e dell’assistenza.

Occorre, soprattutto, affrontare le problematiche in chiave antropologica e non strumentalmente ideologica o partitica; peggio, in una logica di mera contrapposizione alla visione della Chiesa Cattolica. Occorre interrogarsi responsabilmente sul senso della vita e della morte, della cura della sofferenza, del rispetto della dignità e dell’unicità di ogni persona.

Il sano confronto è segno di civiltà.

La speranza del confronto

Nel frattempo, l’obiettivo del positivo confronto è stato recentemente raggiunto tra le religioni monoteistiche abramitiche (cristiani, ebrei, musulmani), i cui rappresentanti hanno sottoscritto un documento sulle problematiche del fine vita. Il documento, reso pubblico a cura della Pontificia Accademia per la Vita e consegnato a papa Francesco il 28 Ottobre scorso, è espressione di una felice convergenza e non lascia dubbi sull’impostazione di fondo, costituita dal valore della dignità umana, messa a dura prova in caso di malattia grave o terminale. In questi casi l’assistenza – si legge nel documento – rappresenta da un canto un modo di aver cura del dono divino della vita; d’altro canto è segno della responsabilità umane ed etica nei confronti della persona del sofferente.

La posizione delle religioni interessate sul tema del fine vita è chiaro, forte, finanche radicale, dovendo prendere posizioni fissando i punti cardine per i propri fedeli: “L’eutanasia e il suicidio assistito sono moralmente e intrinsecamente sbagliati e dovrebbero essere vietati senza eccezioni. Qualsiasi pressione e azione sui pazienti per indurli a mettere fine alla propria vita è categoricamente rigettata…Ci opponiamo a ogni forma di eutanasia – che è un atto diretto deliberato e intenzionale di prendere la vita – così come al suicidio medicalmente assistito che è un diretto, deliberato e intenzionale supporto al suicidarsi – in quanto sono atti completamente in contraddizione con il valore della vita umana e perciò di conseguenza sono azioni sbagliate dal punto di vista sia morale sia religioso e dovrebbero essere vietate senza eccezioni.”

La speranza è che quantomeno la parte politica si impegni a che il desiderio dei pazienti di non essere un peso non ispiri loro la sensazione di essere inutili e che prevalga la giusta coscienza del valore e della dignità della loro vita, meritevole di essere curata e sostenuta fino alla sua fine naturale.

Serve, a questo punto, una legge giusta, equilibrata, che possibilmente sia largamente condivisa, che eviti aperture semplicisticamente eutanasiche e, piuttosto, promuova cure palliative.

Chissà se anche i nostri parlamentari sapranno finalmente ricercare questo sano confronto.