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Sentenza politica. Una, tante o tutte? | Diritto | Eugenio Scagliusi

Eugenio Scagliusi

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Sentenza politica. Una, tante o tutte?

Sentenza politica. Una, tante o tutte?


Ogni volta che, all'esito di un giudizio, soprattutto penale, sento attribuire alla sentenza la qualificazione di politica, mi chiedo se effettivamente non sia troppo pazzo o proprio non abbia capito nulla e, dunque, debba provare a resettarmi e ricominciare. A cosa mai mi saranno serviti anni di studi e letture di filosofia del diritto, teoria generale del diritto, filosofia della politica, dottrina dello stato, sociologia del diritto ed altra roba simile? Non sarebbe stato meglio passare il tempo a leggere altro? O non leggere affatto, che tanto ormai sembra che il voler sapere costituisca un problema; per sé e per gli altri.

Perché? Semplice: perché la qualificazione di una sentenza come “politica” è del tutto ovvia e – a mio parere – banale. Non può esserci alcuna sentenza che non sia “politica”. Piuttosto occorrerebbe intendersi sul senso del termine “politica”, che si presta ad una pluralità di interpretazioni. Ma il provarci mi porterebbe fuori tema e mi dilungherebbe troppo.

Potrei anche comprendere che l'uomo comune e finanche il giornalista non specializzato o che non sappia nulla di cronaca giudiziaria possa utilizzare la frase “sentenza politica”. Ma che lo facciano anche magistrati, avvocati o comunque operatori del diritto, mi sembra francamente sviante. Forse anche eccessivo.

Spesso si dimentica come il mondo del diritto, quello che produce sentenze ed evoluzioni giurisprudenziali, non sia fatto solo di norme. Tanto meno di rigida applicazione di norme. Se così fosse, sarebbero giuristi anche i più piccoli, ormai in grado di navigare in internet, copia incollare di tutto e sicuramente in grado di trovare una norma da qualche parte ed applicarla al caso concreto pensando di risolverlo. Ma se così fosse – e sarebbe pericolosissimo, tipico di regimi autoritari, alcuni anche a noi molto vicini – la rigida applicazione delle norme condurrebbe all'annientamento del valore della persona umana. Non vi sarebbe posto per l'analisi e lo studio delle singole fattispecie: basterebbe incasellarle nelle rigide previsioni normative. Necessiterebbe una lunga elencazione di previsioni, anche dettagliate, per evitare che nelle maglie larghe si producano vuoti normativi. Impresa quasi titanica. Si produrrebbe quella superiorità della teoria della dottrina pura del diritto e del positivismo che, pur utile nei percorsi speculativi del mondo giuridico, ha incontrato nel tempo pesanti e legittime criticità. Disquisirne qui, non avrebbe senso. Mi interessa la problematica di fondo.

Per quanto possa produrre riserve ed infinite riflessioni, la imparzialità del giudicante è il requisito inseparabile dall'idea stessa del giudicante; ma non è del tutto indispensabile che esso sia chiamato a decidere secundum leges. Il giudice secundum leges è uno dei modi, il più perfezionato e “razionalizzato”, di “fare giustizia”. Lo scriveva chiaramente Pietro Calamandrei (Giustizia e Politica: sentenza e sentimento, in Opere Giuridiche, a cura di M. Cappelletti, I, Morano, Napoli, 196, pagg. 637 e ss.), che non mancava di chiedere “...giudici con l'anima: giudici 'engagès', che sappiano portare con vigile impegno umano il grande peso di questa immane responsabilità che è il rendere giustizia.”

Ed ecco il punto: può un giudice essere engagè, “impegnato ideologicamente”? O un giudice deve essere “anonimo”, inanimato, produttore di “mera logica”? Non mi nascondo. La mia opinione è fin troppo chiara dall'inizio di questa riflessione: un giudice è e deve essere engagè. E ogni sua  sentenza, al pari di tutte le sentenze, da qualunque organo giurisdizionale provengano, è naturalmente “sentenza politica”.

Un giudice mantiene nel suo lavoro, nella elaborazione delle sentenze, nella decisione del processo, la sua piena, naturale, imprescindibile connotazione umana. Con le sue passioni, i suoi timori, i suoi sentimenti, i suoi dubbi, le sue idee, le sue valutazioni, i suoi vizi ma anche le sue virtù, i suoi difetti ma anche i suoi pregi: tutto ciò che, sostanzialmente, differenzia le sentenze rispetto a fattispecie che a volte possono essere anche simili. Del resto, se così non fosse, non vi sarebbe ragione perché i vari stati, anche quelli meno attenti al rispetto dei diritti umani e della democrazia o comunque di “nuova democrazia”, prevedano diversi gradi di giudizio e finanche collegi giudicanti che riesaminino il prodotto del lavoro del giudice o che, proprio attraverso lo strumento della collegialità, producano effetto calmierante le diverse personalità di ogni singolo componente.

Per queste ragioni, non comprendo questo comune ritenere sempre più frequentemente “politiche” alcune sentenze – soprattutto “alcune” – piuttosto che altre (o tutte!). Tanto più quelle che non condividiamo ed ancor più quelle che riteniamo viziate da percorsi logico-valutativi diversi da quelli da noi prodotti. Ci sfugge che nelle questioni di diritto, sia nell’applicazione delle norme sia nella valutazione dei fatti, non è mai possibile elidere del tutto i margini di discrezionalità del singolo giudicante.

Aggiungo, a conclusione, un’ultima considerazione. Quella del costituzionalista Temistocle Martines, che osservava come ogni giudice, a pieno titolo parte integrante ed anch’esso cittadino della pòlis, con il suo lavoro, con le sue sentenze, partecipa al governo della stessa pòlis.

La verità, dunque, è che non c’è sentenza che non sia “politica”.

Un'ultima precisazione è doverosa. Questa riflessione parte dall'attualità della cronaca, ma non è riferita strettamente alle vicende processuali di Silvio Berlusconi. E forse dovremmo smetterla tutti di pensare sempre a casi specifici e concreti, alle vicende personali di qualcuno, piuttosto che utilizzare categorie generali ed astratte per poter quantomeno provare ad essere più obiettivi e meno legati al particolare.

Non ho paura di giudici engagès, ma di chi vuol far credere che i giudici non possano o non debbano essere engagès.