Accompagni volentieri un collega più giovane ad una udienza di separazione e scopri di doverlo ringraziare. Perché, in maniera del tutto inaspettata, ti ritrovi a riflettere sull’idea di famiglia. Passano un paio di giorni e continui ancora a pensarci. Pensi a quella risposta di uno dei due coniugi alla domanda del giudice: “Perché lei si vuole separare?. Che strano. Domanda prevedibile e forse banale, che stranamente coglie impreparato l’interrogato, che tentenna e poi risponde: “Perché non c’è vita sociale; non abbiamo vita sociale...”. Prova anche a spiegarsi meglio, sempre su richiesta del giudice che – a sua volta – eccepisce la singolarità un simile giudizio dopo più di venti anni di vita coniugale.
Non c’è vita sociale.
Sei in aula quasi occasionalmente, per cortesia più che per esigenze professionali.
Ma hai assistito ed hai ascoltato. Cogli l’insoddisfazione di un coniuge perché
il matrimonio limiterebbe le proprie aspettative di vita sociale al punto da
non lasciar spazio a relazioni. Capisci che dietro la frase si nascondono
desideri di chi vorrebbe uscire, incontrare, interloquire. Relazioni che – ne
sei sicuro – la coppia vive. Ma capisci che quel coniuge, pur uscendo, pur incontrando,
pur interloquendo, si vergogna del proprio compagno, non ritenuto all’altezza
delle relazioni stesse.
Ci pensi ancora dopo due giorni. Ne riparli con il collega. Notate le molte contraddizioni. In realtà in questi due giorni hai pensato ad altro. Sei tu, allora, a doverti spiegare.
Non c’è vita sociale.
Certo, il matrimonio comporta limitazioni. Anche al mondo delle relazioni dei
due coniugi. Cambiano abitudini, luoghi, persone, amicizie, occasioni. Cambia
molto. È naturale. Se non altro perché prima si era soli; poi in due ed anche
più.
Ma sono due giorni che pensi a come – a tuo parere – il matrimonio, la
famiglia, costituisca il massimo momento di vita
sociale. Parere, in verità, che ricordi bene essersi formato in tanti anni
di letture, alcune occasionali altre volute e cercate. Parere sviluppatosi dall’originaria
aspirazione di ogni persona a realizzare e soddisfare la propria pienezza di
vita, nel cui ambito è partecipe l’unione coniugale. Non la mera unione
sessuale, destinata a soddisfare il labile istante di godimento; ma l’unione duratura,
intimamente e totalmente finalizzata al superamento dell’unione stessa per la
produzione di una unità tra due vite e la produzione di altra vita. Nell’unione
coniugale la vita si fonda con la vita e produce vita. Una volontà di unione
che, partendo dalla finitezza della vita personale, volge a completarsi nella
vita comune.
Nella vita comune i bisogni sono della prima vita verso l’altra, in un processo
di integrazione tra le diversità delle due che, attraverso il vivere la vita
altrui, porta al beneficio comune.
Quale grande esempio di socialità!
Nella famiglia ci si realizza vivendo totalmente per l’altro, vivendo la sua
vita, vivendo secondo il bisogno altrui e, al tempo stesso, provando
direttamente sulla propria vita i benefici della vita dell’altro.
Matrimonio e famiglia – è vero – costituiscono un limite
alla vita di ognuno. Quasi un sacrificio per la tendenza alla libertà
personale, cui si sostituisce una rete di doveri e responsabilità per l’altro. Non
a caso la volontà che porta a matrimonio e famiglia deve essere massimamente
libera e non condizionata. Perché quando la volontà si volge alla scelta dell’unione,
essa impegna la vita ad un vincolo enorme, perenne, ma proprio, personale,
scelto, diretta conseguenza della propria libertà.
La prima alternativa alla propria solitudine, alla libertà della propria vita,
è la scelta della vita comune, nell’ambito della quale nasce e si sviluppa l’interesse
a percorrere una via comune per una meta comune. Matrimonio e famiglia
rappresentano parte di quel percorso.
Nel percorrere quella via, spesso ci si
avvede sì anche della sua limitatezza. La vita familiare sembra non essere
sufficiente ad appagare aneliti e bisogni di altre vite, di altre famiglie. Nasce
l’aspettativa di un ulteriore passo, una ulteriore iniziativa, un ulteriore esigenza
di completarsi aprendosi ancor più all’altro, più di quanto non consenta la
famiglia stessa. Nasce il desiderio di volersi dedicare talmente all’altro, da
volersene occupare. Nasce il bisogno del dedicarsi alle istituzioni, nelle loro
multiformi manifestazioni, alcune anche molto elementari. Nasce il bisogno del
prestarsi alla vita pubblica, ai
bisogni di un insieme di persone, ad altre vite, ad altre famiglie.
La famiglia è l’essenza della vita sociale. Non serve scomodare Cicerone ed il
suo seminarium rei publicae; è
sufficiente l’analisi dell’esperienza comune.
Allora nuovamente grazie a chi me lo ha fatto ricordare. Adesso il punto è come
spiegarlo al prossimo corso prematrimoniale, senza che i futuri sposi scappino
via spaventati…