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Referendum costituzionale: il mio perché. | Diritto | Eugenio Scagliusi

Eugenio Scagliusi

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Referendum costituzionale: il mio perché.

Referendum costituzionale: il mio perché.


Premessa

Che la politica, con i suoi confronti e dibattiti, proceda ormai per slogan è talmente ovvio da risultare quasi banale. Piuttosto, mancando ai suoi attori analisi e capacità interpretativa, motivazioni e capacità argomentativa, sintesi e capacità deliberativa, discernimento e capacità critica; mancando idee e valutazioni che sappiano andare oltre le stanche superate ideologie tradizionali. Mancando ad essi, insomma, i rudimenti della dialettica, siamo da tempo alla fase del tributare consenso politico a chi la spara più grossa. E se la sparata si qualifica, oltre che per dimensione, anche per provocare volgari cachinni, ecco garantiti per questi attori ascesa e successo. Siamo assuefatti e finanche incapaci del più minimale rigurgito – rispetto all’antitetico superiore rivoluzionario orgoglio, che costituirebbe addirittura atto eroico – che ci consentirebbe comunque di espellere e liberarci di tali attori.

Su questa premessa, sarebbe stato del tutto visionario aspettarsi dagli attori della politica qualche confronto con spiegazioni semplici ed elementari sul tema del referendum costituzionale, spiegazioni che, entrando nel merito della riforma, consentissero ai cittadini elettori, chiamati ad esprimersi sul quesito referendario, di superare la riduttiva desolante logica di segnare le caselle del “si” o del “no” in funzione anti o pro governativa. Un percorso decisionale, questo, in verità viziato ab origine dal primo e principale attore della attuale politica italiana, nella persona del Presidente del Consiglio Matteo Renzi, che ha trasformato il consenso sulla modifica di ben 47 articoli della Costituzione Repubblicana in un giudizio politico sull’operato del suo Governo.

Capirci qualche cosa non è facile. Volendo approfondire i temi referendari evitando qualsivoglia condizionamento, anche giornalistico, occorre in principio recuperare le fonti dirette: il testo delle nuove norme costituzionali e di quelle vigenti. E non è sufficiente la loro semplice lettura, richiedendosi uno studio comparato faticoso anche per un prode volenteroso studente di Giurisprudenza alla prese con l’esame di Diritto Costituzionale. Parte in vantaggio, invece, chi già conosce l’attuale assetto costituzionale dello Stato. Vantaggio che presto si svela anch’esso fragile; tant’è che finanche gli addetti ai lavori, fior di costituzionalisti docenti universitari, si sono già schierati chi per il “sì”, chi per il “no”, anche a prescindere da valutazioni di opportunità e convenienza politica.

Difficoltà ancora maggiore è il dover spiegare la riforma a chi non possiede questi strumenti culturali, trattandosi di una riforma a contenuto prettamente tecnico e, dunque, bisognevole di sintesi e spiegazioni quasi scolastiche.

D’altra parte, il dovere civico del voto impone una responsabile conoscenza di ciò su cui ci si esprime. A maggior ragione se si tratta di decidere dell’assetto organizzativo dello Stato, che certo non è possibile mutare ad ogni cambio legislatura, peraltro con un meccanismo che decreta l’esito del voto a prescindere dal numero dei votanti e con il rischio, dunque, che a determinare il risultato sia una piccolissima minoranza.

E così, con il voto referendario saremo chiamati ad esprimere un giudizio sulla bontà di una riforma dell’organizzazione della vita dello Stato sul presupposto che quella di cui ci siamo avvalsi dal 1948 ad oggi è ormai vecchia e non più funzionale.

Proviamo a capirci qualche cosa sintetizzando – pur con doverosa cautela – il contenuto delle nuove norme costituzionali.

I contenuti della riforma

Il superamento del bicameralismo paritario è il nodo essenziale e si coglie fin dai primi articoli. Il Parlamento rimane sì costituito da Camera dei Deputati e Senato della Repubblica, ma cessa il bicameralismo paritario (o perfetto) oggi vigente, per il quale le due camere, affinché una proposta al loro esame diventi legge, devono entrambe approvarla nello stesso testo. Eventuali modifiche introdotte nel testo dalla seconda camera comportano la restituzione dello stesso alla prima per la riapprovazione. Il meccanismo legislativo paritetico è efficacemente riassunto nel testo della Costituzione oggi in vigore all’articolo 70: “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere.”

Con la riforma il Senato diventa il rappresentante delle istituzioni territoriali “…ed esercita funzioni di raccordo…”  tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica. Il numero dei senatori si riduce da 315 (di cui 5 eletti all’estero) a 100, di cui 95 eletti dalle istituzioni territoriali e 5 che possono essere nominati dal Presidente della Repubblica. Poiché i componenti del Senato vengono eletti nell’ambito delle istituzioni territoriali, la durata del loro mandato coincide con quella delle istituzioni di appartenenza. Ma viene rinviata ad altra specifica legge la modalità di scelta e di ripartizione degli eletti tra consiglieri regionali e sindaci. Per i nuovi senatori, in quanto componenti di istituzioni territoriali, non è prevista altra indennità.

La nuova formulazione dell’articolo 70 della Costituzione consta di otto lunghissimi commi che limitano le materie di competenza comune delle due camere e, soprattutto, disciplinano le modalità secondo cui il Senato può inserirsi nel procedimento di approvazione delle leggi proponendo osservazioni e modificazioni.

Dunque, in realtà il bicameralismo paritetico non viene del tutto eliminato, ma subisce importanti limitazioni. Tant’è che non viene meno la possibilità (nuovo articolo 71) che il Senato proponga disegni di legge autonomi alla Camera. In ogni caso, le modalità del procedimento formativo delle leggi vengono fatte oggetto di nuova disciplina.

Due temi che hanno destato profondo disagio e ulteriore motivo di malessere nella più comune opinione pubblica, sono quelli della difficoltà della elezione del Presidente della Repubblica da parte del Parlamento e quello dell’abuso dello strumento referendario. La prima questione viene affrontata riducendo la quota deliberativa per la elezione del Presidente. La seconda, aumentando da 500.000 a 800.000 il numero delle firme necessarie per promuovere un referendum.

Con la riforma, inoltre, si abroga il C.N.E.L. – Comitato Nazionale dell’Economia e del Lavoro, organo consultivo sia per le due camere che per il Governo, oltre che di ausilio nella elaborazione di testi legislativi per le materie di sua competenza.

La costruzione di nuovi ruolo, funzione e competenza del Senato, trasformato in camera delle istituzioni territoriali, viaggia parallelo alla specificazione del rapporto tra Stato e istituzioni territoriali; in primis con le Regioni.
Lo Stato centrale, rispetto alle Regioni, ampia la propria potestà legislativa esclusiva acquisendo anche la materia della tutela della salute, delle politiche sociali e della sicurezza alimentare. Termina anche la competenza concorrente tra Stato e Regioni (dunque la competenza dello Stato a determinare i principi fondamentali e delle Regioni a legiferare nel rispetto di quei principi, oltre che di quelli derivanti da obblighi internazionali) passando in via esclusiva al primo le disposizioni in materia di istruzione, anche universitaria, ordinamento scolastico e programmazione strategica della ricerca scientifica e tecnologica; la tutela e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici, l’ambiente e l’ecosistema, il governo del territorio ed il sistema della protezione civile; la disciplina dell’ordinamento sportivo; le disposizioni sulle attività culturali e sul turismo; l’ordinamento delle professioni e della comunicazione; la produzione, il trasporto e la distribuzione nazionali dell’energia, unitamente alle infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto e di navigazione, con le relative norme di sicurezza.
Alle Regioni, invece, viene attribuita la potestà legislativa esclusiva in materia di rappresentanza delle minoranze linguistiche; di pianificazione del territorio regionale e di mobilità al suo interno; di dotazione infrastrutturale; di programmazione e organizzazione dei servizi sanitari e sociali; di promozione dello sviluppo economico locale e organizzazione in ambito regionale, dei servizi alle imprese e della formazione professionale; di promozione del diritto allo studio, anche universitario; in materia di promozione delle attività culturali, dei beni ambientali, culturali e paesaggistici, di valorizzazione e organizzazione regionale del turismo.

Sia pur incidentalmente, è giusto precisare come la Costituzione non abbia mai disciplinato le modalità di elezione dei parlamentari, materia riservata alla legge elettorale. Ma il dibattito sul referendum costituzionale riguarda anche la nuova legge elettorale, che condurrà alla elezione della nuova Camera dei Deputati. È evidente il collegamento tra i due temi: determinarsi sulla costruzione di un nuovo potere legislativo richiede anche – o soprattutto – individuazione delle regole costitutive di quel potere.
 

Le opposte valutazioni

Rispetto ai punti cardine della riforma qui riassunti, queste le diverse posizioni dei diversi schieramenti in campo.

Ragioni del "no"
I sostenitori del “no” sostengono che il primo obiettivo della riforma, il superamento del bicameralismo paritario, non viene affatto raggiunto, per quanto l’istituto della fiducia tra Parlamento e Governo venga riservato alla sola Camera. Il nuovo Senato non ha competenza in materia regionale ed il meccanismo elettivo violerebbe il principio di sovranità, poiché i senatori non verrebbero eletti direttamente dai cittadini elettori, ma scelti dagli enti territoriali. I componenti si troverebbero a ricoprire più cariche in contemporanea, con dubbi sulla efficacia ed efficienza del loro contributo. Il numero dei senatori, 100, rispetto ai deputati, 630, sarebbe indicativo dello scarso contributo all’esercizio delle prerogative cui le assemblee saranno chiamate.

La formazione delle leggi non viene semplificata, ma resa più complessa.

Il rapporto Stato – Regioni registra una drastica riduzione delle competenze regionali, a discapito delle autonomie. Viene fortemente criticata la formulazione delle norme che, attraverso la frase “…disposizioni generali e comuni…”,  riferita alla riserva in favore dello Stato, da un canto ne ampia a dismisura la sua potestà; d’altro canto, potrà alimentare ancor più – giammai ridurre, come, invece, sarebbe auspicabile – il contenzioso dinanzi alla Corte Costituzionale in materia di conflitto di attribuzioni tra Stato e Regioni. Vieppiù, viene aspramente criticata la clausola (definita “clausola vampiro”), contenuta nel nuovo articolo 117, che consente comunque allo Stato di intervenire anche nelle materie di competenza esclusiva regionale “…per la tutela dell’unità giuridica od economica della Repubblica o per la tutela dell’interesse nazionale.”.

Per quanto attiene alla connessione tra riforma costituzionale e parallela nuova legge elettorale, identificata dagli addetti ai lavori come Italicum, i sostenitori del “no” ne accusano il meccanismo complicato, tra premio di ballottaggio, premio di maggioranza e soglia di sbarramento per ottenere i seggi. Ne accusano soprattutto il rischio che, con l’attribuzione di un premio di maggioranza al partito (pur di maggioranza relativa) che risultasse vincitore alle elezioni, il partito stesso ed il suo leader, diventato Capo del Governo, avrebbe in mano le chiavi dell’intero apparato statuale. Viene ventilato il rischio di una sorta di “dittatura del premier”, un pericoloso premierato assoluto.

Ragioni del "sì"
Dal canto loro, i sostenitori del “si” deducono che il superamento del bicameralismo paritario è equilibrato, poiché permette comunque al Senato di richiamare tutte le leggi. Ma con la limitazione del rapporto fiduciario tra la sola Camera ed il Governo, si semplifica il quadro politico generale nel cui ambito operano gli attori delle scelte. Il procedimento di formazione delle leggi non sarebbe più complicato di quello vigente in altri Paesi ed, in ogni caso, i regolamenti di Camera e Senato potranno intervenire per effettuare le opportune correzioni.

Le materie di competenza regionale sono fatte oggetto di razionalizzazione, anche al fine di ovviare al non corretto esercizio del potere legislativo da parte delle Regioni. La clausola di supremazia in favore dello Stato, invece, è necessaria a garantire l’equilibrio sostanziale tra Stato e Regioni.

Lo schieramento tende a minimizzare valenza e giudizio sull’Italicum rispetto alla complessiva tenuta del sistema costituzionale, fatto di garanzie che salvaguarderebbero comunque le minoranze politiche. Nelle ultime settimane sembrano registrarsi aperture alla introduzione di modifiche che possano allargare il numero dei favorevoli alla legge.

Valutazioni che prescindono dal testo della riforma

Tutte le considerazioni precedenti discendono dalla mera lettura comparata dei testi costituzionali in esame, quello vigente e quello con il quale lo si vorrebbe sostituire.
Ci si avvia, adesso – ed è sembrato giusto esprimerlo con chiarezza –, sul campo minato delle valutazioni personali che, in quanto tali, sono ovviamente del tutto soggettive.

Non mi entusiasma (né credo interessi molto) il dibattito preliminare sul procedimento di riforma che è stato utilizzato, criticato da molti perché di iniziativa governativa e non già parlamentare. L’attuale Governo ha ricevuto la fiducia in Parlamento e, per quanto la legge che ha portato alla elezione di quest’ultimo sia stata dichiarata incostituzionale, non è discutibile la piena legittimazione alle attività politiche di riferimento. Compresa la revisione costituzionale. Anzi, all’esito del risultato delle ultime elezioni, parve subito chiaro il bisogno impellente di procedere prima di tutto a riforme, ma che fossero ampiamente condivise, come del resto la stessa Costituzione prevede. Questa imprescindibile premessa è mancata durante il percorso ed in particolare a seguito delle scelte operate dal partito di maggioranza relativa, il Partito Democratico, in cui Matteo Renzi ha abilmente strumentalizzato la leadership acquisita con le elezioni primarie interne al partito, per scalare la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Pur prendendo atto delle maggioranze variabili registrate in Parlamento, la fiducia ottenuta dal Governo Renzi lo ha legittimato a presentare una proposta di legge di revisione costituzionale, poterla discuterla nelle sedi competenti ed approvarla; ma non avendo ottenuto la maggioranza parlamentare richiesta (i 2/3 dei componenti da entrambe le camere, articolo 138 Costituzione), questa approvazione è, oggi, soggetta all’approvazione dei cittadini elettori attraverso il referendum.

Si giunge, così, alla prima e forse più importante nota dolente.
Per quanto sia evenienza prevista dalla Costituzione, nutro profonde perplessità nei confronti di una consultazione popolare che abbia ad oggetto una riforma così importante e, soprattutto, così tecnica. I cittadini elettori non sono tenuti a conoscere meccanismi di funzionamento dell’assetto statuale. La loro indiscussa sovranità a riguardo è esercitata delegando la funzione legislativa, attraverso le elezioni, a persone che si dedichino espressamente ad essa.

Le difficoltà di comprensione ed applicazione sistematica della riforma richiede competenze sicuramente non comuni. Quel che è peggio, i cittadini elettori vengono chiamati ad esprimersi sulla riforma attraverso quella croce che dovranno segnare sulla scheda, sulla casella del “si” o su quella del “no”, così rispondendo in maniera semplicistica ad un quesito che si presenta già esso incomprensibile e strumentale: “Approvate  il testo della legge costituzionale concernente ‘disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del Titolo V della parte II della Costituzione’, approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta ufficiale n. 88 del 15 aprile 2016?”. Quesito incomprensibile, perché propone una domanda essenzialmente tecnica e comunque scollegata dagli aspetti sostanziali della riforma; quesito strumentale, perché pone furbescamente l’aspetto della riduzione dei costi della politica, diventato ormai al tempo stesso mostro da abbattere, alibi per ogni castroneria, argomento e frase clou di ogni dibattito, discussione, chiacchierata da Bar Sport, sproloquio o sermone collettivo che voglia giustificare la pur comune disaffezione dei cittadini dalla politica. Come se tutto fosse semplicisticamente riducibile ai costi e non già alla qualità della politica.

Già, la qualità della politica. A chi interessa, ormai, guardare alla qualità della politica?
 

Valutazioni di un nostalgico e sognatore

Sia pur con difficoltà, al termine della tragedia della Seconda Guerra Mondiale l’Italia, gli italiani, i loro rappresentanti politici del tempo, seppero avviare una importante processo di riappacificazione nazionale da cui nacque la Costituzione repubblicana del 1948. Si trattò di un opera di ingegneria istituzionale di straordinaria perfezione giuridica e politica. Fu sicuramente il momento più alto della storia del nostro Paese, dalla sua Unità ai giorni nostri. Non a caso, il risultato, la nostra Prima Carta, è ritenuta “una delle più belle al mondo”.

Negli anni successivi non sono mancati tentativi di ammodernamento, specie nel rivedere assetti ed equilibri tra organi dello Stato al fine di consentire allo Stato stesso la migliore funzionaliltà rispetto alle mutate esigenze sociali. Ma i tentativi sono risultati sempre deboli.

Non poteva (né può) essere facile modificare la Carta costituzionale nata nello spirito di ricostruzione di un paese distrutto, ma con amplissima condivisione di tutti. Una condivisione risultato del lavoro di una apposita Assemblea Costituente, eletta su basi proporzionali e, dunque, rappresentativa dell’intero Paese, dedicatasi per un anno e mezzo ad una sola ed esclusiva attività: la redazione della Carta. Un’Assemblea costituita dalle migliori personalità politiche del tempo e rappresentativa di tutte le componenti sociali, culturali, economiche di allora.

Le personalità sono cambiate. Non è cambiata, genericamente, la politica. Non serve accusare, genericamente, la politica. Serve accusare noi stessi, ognuno di noi. Serve accusare l’aver delegato la rappresentanza a chi ha escluso il generale prediligendo il particolare. O forse siamo noi stessi, ormai talmente egoisticamente presi dal nostro piccolo misero interesse particolare, dal ritenere di privilegiarlo e di privilegiare chi sembra garantircelo, ad ogni livello, ad ogni occasione.

Di fatto sono cambiati sistemi e modalità di scelta di quelle personalità. Ci siamo quasi improvvisamente avveduti delle difficoltà di queste nostre personalità delegate, di questi nostri rappresentati, a governare. Se non addirittura della loro incapacità. Stanchi del loro modo di operare; stanchi delle liti; stanchi dei cambi di casacca; stanchi di governi che perdevano frequentemente la fiducia parlamentare, così rallentando il lavoro istituzionale; stanchi di abusi e privilegi di cui molti si sono resi interpreti; stanchi di tutto questo, ci siamo innamorati di un sistema elettorale maggioritario che ha progressivamente sostituito il previgente proporzionale. Ci siamo illusi che passando al maggioritario tutto si sarebbe risolto. Ci siamo ritrovati, invece, dopo il 1994, con un Parlamento sostanzialmente bipolare ma particolarmente rissoso, un Parlamento che con il passare degli anni ha dovuto registrare il progressivo allontanamento dei cittadini dalla politica. Per giunta, nel 2013 quel bipolarismo è finito e dalle elezioni non è uscito un vero vincitore. Ed eccoci incapaci di affrontare le sfide richieste dal nuovo secolo, al centro di una crisi economica che non accenna a diminuire, con le problematicità derivanti dai nuovi accadimenti geopolitici, non ultima la nuova immigrazione.

Oggi ci ritroviamo con un Parlamento molto poco rappresentativo del Paese, eletto con una legge dichiarata incostituzionale; che funziona con maggioranze variabili; che ha proposto una riforma costituzionale attraverso una debole maggioranza parlamentare e con il profondo dissenso dell’altra parte del Parlamento.

Certo, in queste condizioni storico sociali una riforma è importante. Ma lo sarebbe una riforma che rafforzi, con regole condivise, la coesione nazionale. Invece il risultato è sotto gli occhi di tutti: mentre quello del 1948 fu un onorevole equilibrio tra diverse anime, tra statisti democristiani, comunisti, socialisti, cattolici, liberali, azionisti, uomini culturalmente molto diversi tra loro, il risultato del 2016, sia se prevarranno i “sì” sia che prevarranno i “no”, è quello di un Paese nuovamente ferito, malato, lacerato, incapace di confrontarsi serenamente sul proprio futuro, incapace di ripristinare una sana dialettica politica, incapace di aprire una nuova competizione tra principi antagonisti, incapace – dunque – di individuare risposte condivise ai problemi inediti del nuovo secolo. Con la differenza che in questo caso la cura, la Carta, nuova o vecchia che sia, non costituisce in realtà la cura dalla malattia, ma la sua fonte.

A cosa serve una riforma costituente se manca lo spirito costituente? Se l’esito del referendum confermasse la modifica della Costituzione, non rimedierebbe al grave degrado morale in cui siamo precipitati. Il degrado morale di noi stessi, del Paese, non certo (solo) dei nostri rappresentanti e, dunque, della politica!

Insomma, più che il nobile piacere di una riforma condivisa, ci ritroviamo invece divisi proprio su quelle regole che dovrebbero unirci. Con la contraddizione che non riusciamo neanche più a capire perché siamo divisi, se non dall’essere a favore o contro qualcuno! Una contrapposizione del tutto vuota ed inutile che annienta la sana contrapposizione culturale, ninfa del corretto confronto politico.

Sono nostalgico e sognatore.

Sono nostalgico perché guardo con profonda ammirazione allo spirito costituente che portò il Paese alla Costituzione del 1948 e non nascondo affatto che avrei preferito una riforma strutturata, alla stessa maniera, da una seconda Assemblea Costituente, eletta su basi proporzionali, che si fosse occupata solo della revisione costituzionale. Ipotesi licenziata troppo frettolosamente perché bollata semplicisticamente come ulteriore spreco di denaro pubblico. In verità, per quanto non fosse la stessa cosa, un timido tentativo di delegare la riforma ad un organo ad hoc si promosse: la Commissione Bicamerale del 1997, organo composto da rappresentati della Camera e del Senato, con numero dei componenti ripartito proporzionalmente rispetto ai gruppi politici di appartenenza, nata con il compito di adattare la Costituzione, costruita con una legge elettorale proporzionale, alle differenti nuove regole (maggioritarie) di competizione politica. Un tentativo fallito e che avviò il tramonto politico di Massimo D’Alema, che ci aveva creduto ed aveva presieduto quella Commissione.

Sono sognatore perché non perdo la speranza che, svegliandomi, possa avere la sorpresa che l’idea del ritorno al proporzionale e del ritorno ad un’assemblea dedicata che si occupi esclusivamente di riforme, possa essere stato sogno comune di molti. Del resto non ci compiaciamo un po’ tutti dell’aforisma africano secondo cui Se si sogna da soli, è solo un sogno; se si sogna insieme, è la realtà che comincia?

A parte questa premessa, che attiene al metodo ed al lavoro attraverso cui si è giunti alla proposta di revisione costituzionale, all’essere nostalgico e sognatore aggiungo anche la consapevolezza di un pizzico di follia. Perché tale è il giudizio riservato a chi, contrariamente all’opinione prevalente, ritiene che il bicameralismo paritario costituisca risorsa importante e non già mero ostacolo al lavoro parlamentare. Così, sembra, intuì anche il Presidente degli Stati Uniti Jefferson, secondo cui “…la seconda camera è come la tazza nel quale svuotiamo il the bollente per farlo raffreddare”, opinione riportata finanche nei lavori preparatori dell’art. 55 della nostra Costituzione. La seconda camera stempera le passioni, corregge ed elimina gli errori, introduce un tempo supplementare alla partita, concede la possibilità di recuperare. Invece questo Parlamento rissoso, specchio fedele di un’Italia rissosa, intende precludersi finanche la possibilità di tardivo ma saggio ravvedimento. Ah, già…però così riduciamo gli sprechi eliminando costi e privilegi della seconda camera… Ci accorgeremo presto di quanto ciò non sia vero. Ed ai perdutamente innamorati delle riduzioni di costi e privilegi – aspirazione nobilissima – occorrerebbe chiarire che per farlo forse non sarebbe necessaria una riforma costituzionale. Che poi, nessuno mai si pone la questione –  serissima – di ridurre il numero di incapaci ed inadeguati. Come individuarli? Suvvia, lo sappiamo tutti se una persona ispira fiducia ed ha qualità di rappresentarci, oppure se non ci fideremmo di lui neanche per amministrare il nostro condominio!

Ma l’argomento che più mi disturba quando si parla di eliminare il bicameralismo, con il suo sistema della navetta da una camera all’altra, è il ritornello del rallentamento dell’attività legislativa. Peccato che quando i nostri cari eletti hanno voluto, hanno saputo approvare in poche settimane le leggi sottoposte al loro esame.

Se poi si valuta il possibile nuovo assetto dello Stato attraverso la legge elettorale che viene proposta, viene da chiedersi che fine abbiano fatto i paladini difensori della democrazia, del pluralismo, delle minoranze, delle differenze, dei diritti degli ultimi.

Forse stiamo trascurando come proprio nella attuale estrema litigiosità, nella quale nessuno può fidarsi di nessuno, il ritorno ad un sistema proporzionale garantirebbe quelle funzioni di controllo, di pressione e di influenza da parte delle minoranze che costituiscono sale e ricchezza di una società evoluta, che sappia cogliere il meglio dalle differenze, senza demonizzarle o fuggire da esse.

Purtroppo il sistema proporzionale richiede partiti organizzati, forti e rappresentativi. Tutte qualità ormai perse. Non per colpa dei partiti, ma dei suoi protagonisti, cioè di noi stessi.

 

La mia risposta referendaria

La mia risposta referendaria parte e nasce da quest’ultimo noi stessi. Parte e nasce dal provare a riconoscere, sempre ed in ogni occasione, il primato dell’uomo e della sua dignità.
Ogni riflessione, nessuna esclusa, non può prescindere dal riconoscere la centralità della persona, del soggetto uomo, attore e protagonista indiscusso della storia.

Compete al soggetto, ad ognuno di noi, valorizzare la propria esperienza umana ottemperando alle proprie responsabilità e doveri. Tra i doveri vi è, a mio parere, quello di non stravolgere regole risultato di produzione di un mondo sociale ordinato.

Il funzionamento degli organi dello Stato, lo snellimento dei processi amministrativi e decisionali, la revisione di funzioni e compiti, operazioni pur necessarie, devono essere compiute rispettando un principio cardine proprio della Carta Costituzionale del 1948: quello della rappresentatività. Principio che deve essere valido anche per le sue modifiche. La Costituzione non è una legge come tante altre; la Costituzione è la legge fondamentale dello Stato, che garantisce funzionalità ed equilibrio tra le sue componenti, ma anche convivenza civile al suo interno, nella componente umana.

Dunque, prima ancora che un giudizio sul merito della riforma, il mio è un giudizio sul metodo. Ed è negativo perché competeva a noi tutti, in quanto cittadini, in quanto attori protagonisti della nostra storia, indurre i nostri rappresentanti politici all’assunzione di responsabilità condivise. Perché no, anche di nobili compromessi. Competeva a loro, ai nostri rappresentanti politici, adoperarsi attivamente nello svolgimento del loro lavoro parlamentare, superare le logiche di parte e di schieramento per lasciarsi guidare dallo spirito costituente, rendendosi artefici di una evoluzione pienamente democratica.

Forse dimentichiamo troppo spesso che compito, missione e finalità della politica è la ricerca di condivisione per la crescita sociale comune. Il nostro vivere sociale, uti cives, all’interno di istituzioni organizzate, si risolve nel coesistere, nell’esistere con, non certo nell’alimentare divisioni che minano allo stesso vivere. Insomma, il problema sociale non può non risolversi nel problema etico, dovendosi con ciò tener bene in conto, quale obiettivo primario, la ricerca di unità civica (politica) nella quale confluisce la pluralità.

Vorrei saperlo spiegare a me stesso, prima ancora che ai nostri politici che abbiamo delegato in Parlamento. E vorrei fuggire lontano da quei nostri politici che ragionano con la logica dei numeri, dei consensi, dei voti, non con quella dell’uomo e del suo nobile valore. A volte mi sento circondato e, dunque, fuggire non servirebbe. Allora preferisco resistere. Resistere strenuamente continuando a credere che si possa salvare il mondo con la coerenza delle proprie idee, piuttosto che con l’appiattimento culturale. L’ultimo dei tanti che vogliono propinarci, è il farci credere che se non passa la riforma ogni ulteriore tentativo di revisione costituzionale sarebbe destinato a fallire. Mi sembra, invece, una buona occasione per segnare con la croce il “no” e adoperarsi dal giorno dopo per rinnovare la bellezza della Costituzione con un maquillage a più mani che ne sia all’altezza.