Ancora una sentenza. Questa volta i giudici non sono
richiesti di colmare vuoti legislativi, ma di interpretare una legge già
esistente: la numero 164 del 1982 in materia di rettificazione di attribuzione
di sesso. Si discute davanti al Tribunale se la facoltà riconosciuta di
rettificare il sesso negli atti dello stato civile richieda o no la
modificazione chirurgica dei caratteri sessuali primari. Preso atto che la
scoperta della propria identità di genere costituisce un percorso complesso; che
il disturbo dell’identità già da tempo non viene ritenuto una malattia bensì
una disforia; che per interpretare
correttamente la legge già esistente occorre tener conto della “…civiltà giuridica in continua evoluzione
in quanto soggetta alle modificazioni dell’approccio scientifico, culturale ed
etico delle questioni inerenti…”; che questa “civiltà giuridica in
evoluzione” è “…sempre più attenta ai
valori, di libertà e dignità, della persona umana, che ricerca e tutela anche
nelle situazioni minoritarie ed anomale…”. Su queste premesse, ci si chiede
se si possano modificare gli atti dello stato civile senza che sia necessario
il trattamento medico-chirurgico. Insomma, affinché il percorso di
ricongiungimento tra soma e psiche abbia rilievo anche per lo stato
civile in considerazione dei profili di interesse pubblico che esso contiene,
deve determinarsi “…in via predeterminata
e generale soltanto mediante il verificarsi della condizione dell’intervento
chirurgico…” ?
Questa è la questione. La semplifichiamo ancora: perché si
possa certificare il cambiamento del sesso anche allo stato civile, è
necessario un intervento chirurgico, come richiederebbe la legge (con le
variazioni testuali introdotte nel tempo), o se ne può fare a meno?
Sì, se ne può fare a meno. Ce lo dice la Corte di Cassazione con una sentenza depositata il 20 luglio scorso, la numero 15138. Quello che è necessario è un “…accertamento rigoroso del completamento del percorso individuale da compiere attraverso la documentazione dei trattamenti medici e psicoterapeutici, se necessario integrati da indagini tecniche officiose volte ad attestare l’irreversibilità personale della scelta…”. Sono elementi e caratteristiche che “…unite alla dimensione tuttora numericamente limitata del transessualismo, inducono a ritenere che…(la legge)…non imponga l’intervento chirurgico e/o demolitorio dei caratteri sessuali anatomici primari…quale segmento non eludibile dell’avvicinamento del soma alla psiche…”, perché “…l’acquisizione di una nuova identità di genere può essere il frutto di un processo individuale che non ne postula la necessità…”.
La motivazione non fa una piega. Ma più che la conclusione,
sulla quale tanto ci sarebbe da discutere, le premesse costituiscono la parte
più interessante della sentenza. Nulla si può eccepire sul ritenere che la
scoperta della propria identità di genere costituisca un percorso complesso.
Anche a voler disquisire sulle differenze semantiche tra disturbo e disforia,
lo sforzo sarebbe sterile.
Verità sacrosanta, poi, quella secondo cui la civiltà giuridica è in evoluzione
continua e soggetta alle modificazioni dell’approccio scientifico, culturale ed
etico delle questioni inerenti.
Siamo arrivati al dunque.
Mi confesso sempre più insofferente davanti ad alcune prese
di posizione di parte del mondo cattolico – cui pure rivendico l’appartenenza!
–, pronto ad innalzare barricate davanti a quelle che ritiene aggressioni al
sistema della famiglia tradizione. In casi come quello della sentenza della
Cassazione in argomento, si discute e dibatte sulle conclusioni ma si dimentica
la premessa. La terribile drammatica premessa, tanto vera quanto allarmante: la
civiltà tutta, di cui quella giuridica è parte, è in evoluzione, condizionata
dalle diverse visioni scientifiche, culturali ed etiche. Ed allora, più che
lamentarsi delle conclusioni cui giungono le sentenze, i cattolici, soprattutto
quelli politicamente impegnati, dovrebbero interrogarsi sul come, in che modo,
provano ad incidere scientificamente, culturalmente ed eticamente nella civiltà;
poi, sul se e quanto vi riescano.
La mia personale opinione è che, nonostante le critiche di chi opini
diversamente e vorrebbe farlo tacere per sempre, il mondo cattolico sia allo
sbando e viva un momento di pericolosa confusione, confusione proprio
scientifica, culturale e soprattutto etica. Una confusione che deriva,
essenzialmente, dall’aver abdicato al ruolo formativo. Soprattutto, nell’aver
rinunziato a formare noi stessi, i cattolici educatori.
Come si può vocarsi alla formazione altrui senza primamente preoccuparsi della
propria? E quanto tempo i laici impegnati nel sociale dedicano alla loro
formazione? Quanto tempo abbiamo dedicato allo studio, alla conoscenza, alle
modificazioni di tutti quegli elementi, scientifici, culturali, etici, che
l’evoluzione comporta e reclama? Quanto siamo stati capaci negli ultimi tempi
di farci portatori, nella civiltà, dei nostri valori di riferimento? Siamo
riusciti ad attualizzare nella storia i valori plurimillenari cui diciamo di
ispirarci? Quanto siamo aperti ma ben vigili a cogliere le sempre nuove
epifanie della vita e della storia? Quanto, insomma, al di là dei buoni
auspici, delle raccomandazioni, delle conclamate esigenze predicate ad ogni
occasione, abbiamo realmente partecipato a qualificare la continua evoluzione di civiltà di cui si parla? Come lo abbiamo
fatto? A che serve levare scudi e barricate sui temi della famiglia, delle
unioni civili, delle separazioni coniugali e di tutte le problematiche
successive, della fecondazione assistita, dell’inizio e del fine vita; a che
serve reclamare solidarietà, sussidiarità ed equità fiscale; perché spendersi
nell’accoglienza e nell’assistenza; perché credere nella giustizia sociale; a
che serve preoccuparsi per tutto questo senza produrre gli sforzi necessari per
attualizzare, su questi temi, nella civiltà attuale, possibilmente con un
approccio laico e senza strapparsi le vesti, quanto di realmente nuovo la
intera storia dell’esistenza umana abbia mai registrato: la storicizzazione del
Lògos, unico ispiratore e regolatore del
tutto.
Bella frase. Scrivere “incarnazione” mi sembrava troppo audace per la
sensibilità di qualche ateo che potrebbe leggermi.
Ma come si fa? Ah, non lo so. Non ho ancora studiato abbastanza. Ma che provi a
comprenderlo ed a farlo ognuno di noi è il senso di questa riflessione. Magari
provando a chiarirci le idee. Non come il ricorrente protagonista della
sentenza galeotta, che – nonostante il suo percorso di avvicinamento del soma alla psiche – evidentemente aveva le idee ancora confuse, al punto da
cambiare opinione in corso d’opera e voler mantenere il suo “carattere sessuale
primario”. Lui, il ricorrente – si legge nella sentenza – “…aveva richiesto al Tribunale di Piacenza nel 1999 l’autorizzazione al
trattamento medico chirurgico per la modificazione definitiva dei propri
caratteri sessuali primari al fine di ottenere la rettificazione dei caratteri
anagrafici. Il Tribunale aveva accolto la domanda. Dopo circa dieci anni è
stata richiesta dal M. la rettificazione dei propri atti anagrafici senza
sottoporsi al trattamento chirurgico di adeguamento dei caratteri sessuali
primari al genere femminile. A sostegno della nuova domanda era stato rilevato
che il ricorrente temeva le complicanze di natura sanitaria; che nel frattempo
aveva raggiunto un’armonia con il proprio corpo che lo aveva portato a sentirsi
donna a prescindere dal trattamento anzidetto.”
Va bene, a quanto sembra non è mai tardi per cambiare idea. Intanto, noi
vogliamo almeno provare a chiarircele?
Per esempio, giusto perché in fondo si parla di questioni di diritto, qualche illuminato giurista può spiegarmi perché la Corte, pur ritenendo che la legge richieda come “…ineludibile un rigoroso accertamento della definitività della scelta…”; pur evidenziando gli aspetti di certezza delle relazioni giuridiche; pur confermando che l’ordinamento non possa “…riconoscere un tertium genus costituito dalla combinazione di caratteri sessuali primani e secondari di entrambi i generi…”; pur sostenendo che si debba “…tutelare l’interesse pubblico alla esatta differenziazione tra i generi in modo da non creare situazioni relazionali (unioni coniugali o rapporti di filiazione) non previste attualmente dal nostro sistema di diritto familiare e filiale…” e che per questa ragione “…è necessario per il mutamento di sesso un irreversibile cambiamento dei caratteri sessuali anatomici che escluda qualsiasi ambiguità…”. Ebbene, nonostante queste considerazioni, qualcuno mi spiega come sia mai possibile concludere, legittimando di fatto quel tertium genus, che “…l’interesse pubblico alla definizione certa dei generi non richiede il sacrificio del diritto alla conservazione della propria integrità psico fisica sotto lo specifico profilo dell’obbligo dell’intervento chirurgico inteso quale segmento non eludibile dell’avvicinamento del soma alla psiche. L’acquisizione di una nuova identità di genere può essere il frutto di una processo individuale che non ne postula la necessità…”.
Vorrei anche capire, sinceramente apprezzando chi possa
spiegarmelo, fino a che punto la legge, il sistema normativo, come anche il
sistema della sua interpretazione ed applicazione, deve spingersi nella tutela
delle situazioni minoritarie (ed il transessualismo è sicuramente un fenomeno
numericamente limitato ed anomalo, come scrive la Cassazione), così minoritarie
da diventare specifiche e spesso degeneranti in situazioni egoistiche e
prettamente individuali. L’esigenza di cogliere quelle situazioni eccede spesso
nelle specificità e la società finisce con il soffrirne. Un po’ come il pur
giusto spendersi nella ricerca, attesa e tutela degli ultimi, che rischia di impoverire
e dequalificare tutti gli altri.
Mentre cerco chi possa spiegarmelo, proverò a studiare per capirlo anch’io, lo
giuro. Anche il se ed il come sia possibile conciliare il tendere la mano agli ultimi
che rimangono dietro, con l’esigenza di non perdere il passo.