La storia di questo libro comincia dalla locandina di presentazione. Confesso di non essere stato colpito dalle immagini di Moro, La Pira e Dossetti sulla copertina; né dalla ovvia circostanza di riassumere la loro vita, il loro impegno sociale, la loro vocazione politica, nel binomio “Spiritualità e politica”, facendo così di loro, della loro persona, simboli e testimoni di quel binomio. Ho letto molto altro che riguarda questi tre uomini, al tempo stesso politici e testimoni di fede. La mia attenzione è stata richiamata dalla frase che Francesco Savino ha voluto inserire in basso, sulla destra, nella locandina e – ho scoperto solo successivamente – nella quarta di copertina. Ho scoperto, leggendo, che la frase è inserita nella introduzione del libro. Savino richiama i tre per mostrare, attraverso di loro, “…i pericoli dell’ignoranza reciproca tra lo spirituale e il politico, suggerendo, nel rispetto di altre posizioni, che le due dimensioni possono e devono nutrirsi a vicenda. …”. Nonostante la profondità di questa considerazione, che a me richiama la missione fondamentale che il Concilio affida, nella Gaudium et Spes, ai “fedeli laici”, l’animazione dell’ordine temporale, su cui molto ci sarebbe da dire, Savino continua: “…La mia lettura di queste tre belle figure segue la convinzione di Péguy che ‘la politica si beffa della mistica, ma è ancora la mistica a innervare la politica’…”.
Charles Péguy non è un autore molto conosciuto. Probabilmente non ha avuto buona fortuna a causa dei contrasti e delle critiche che gli rivolgeva il più famoso Maritain. Savino ci guida alla lettura del suo libro attraverso la figura di Péguy, autore molto amato anche da don Luigi Giussani. Péguy aveva come obiettivo primario la riabilitazione del temporale come cuore del cristianesimo. Il cristianesimo si fonda sulla incarnazione, cioè sulla volontà dell’Eterno di salvare il mondo, il tempo (a me piace più utilizzare la parola storia), entrandoci dentro, assumendolo fino in fondo. Se l’Eterno è entrato nel tempo, ogni tempo, ogni istante di tempo, ogni momento apparentemente insignificante di tempo, porta in sé un significato più grande. L’infinito trasforma continuamente il finito, e la miseria umana diventa così, a chi la sa guardare e vivere alla luce dell’eternità, grandezza. Per Péguy vi sono uomini che si illudono di salvare il mondo con il tempo (i socialisti, gli scientisti, tutti quelli che affidano all’uomo, da solo, la salvezza del mondo); ed altri, che magari professano a parole la fede cristiana, i quali non avendola davvero compresa credono di salvarsi dal tempo, rifuggendo lontano, nello spiritualismo, in una fede disincarnata, in un grido di maledizione che rinnega la speranza cristiana. La originalità di Péguy è quella di far risplendere il soprannaturale nel terreno, la presenza di Dio in questo mondo più che la sua trascendenza.
Ecco la straordinaria intuizione di Savino: legare la
missione (la vocazione) temporale dell’uomo, del credente, nella parte più alta
e tipica qual è quella “politica”, alle tre figure esemplari di Moro, La Pira e
Dossetti, tre persone che di quella missione, di quella animazione dell’ordine
temporale, dell’entrare nel profondo del tempo (della storia), ne hanno fatto
profonda ragione di vita.
Accostarmi alla lettura del testo di Savino attraverso Péguy è stato
particolarmente utile. Péguy è stato allievo di Bergson, che – non nascondo – è
tra le mie “fonti”, insieme a Blondel, Ollè Laprune, ai nostri Rosmini, Vico.
Da qualche tempo ho terminato uno studio che offre una soluzione della vita e
della politica proprio nell’infinito, nella trascendenza, nel lògos, con
la specificità del passaggio dal lògos dialogo al lògos azione.
Savino nella sua introduzione, riferendo il pericolo di slegare “azione” e
“contemplazione”, cita Hannah Arendt ed il suo Vita activa.
Ed ecco la tesi del libro attraverso le tre figure: Moro, La Pira, Dossetti,
servono alla scopo di Savino di mostrare i pericoli dell’ignoranza reciproca
tra lo spirituale e il politico, dimensioni che – come precisa – possono e
devono nutrirsi a vicenda. Su ognuno di loro si potrebbero dire tante cose. Mi
limiterò all’essenziale, provando a tracciare linee di lettura del testo.
Giorgio La Pira
Savino
introduce La Pira dedicando le prime pagine al contesto storico del XX secolo
(il secolo “breve”, secondo la definizione dello storico Eric Hobsbawm, per la
densità e straordinarietà degli eventi che lo hanno caratterizzato). Una delle
caratterizzazioni fondamentali è rappresentata dal difficile percorso per la
costruzione della “democrazia”. Così è accaduto anche in Italia, con un
percorso favorito anche grazie al contributo di cattolici politici dello
spessore di Luigi Sturzo, Alcide De Gasperi, Aldo Moro, Vittorio
Bachelet…Giorgio La Pira.
Savino nota come La Pira sia diventato un testimone del Vangelo partendo da
posizioni di non credente! La sua conversione nasce dall’ascolto casuale di un
canto di lode che lo porta a comprendere di dover assumere un ruolo più
incisivo, più concreto, che doveva svolgersi al completo servizio dei fratelli.
Così, passa dell’impegno universitario, quasi un luogo di semplice esercizio
di conoscenze – dice Savino – ad un impegno oltre i muri dell’università:
verso le persone, la città, le città, il mondo.
Prima ancora di aprirsi al mondo ed alla vocazione politica,
capì che i suoi studi dovevano allargarsi e comprendere, oltre quelli
giuridici, quelli filosofici: la filosofia tomistica, gli scritti dei Padri
della Chiesa, la Sacra Scrittura! Prima! Oggi c’è chi si improvvisa alla
politica solo perché campione di condivisione e di like sui social.
Nell’aprirsi al mondo, la vocazione di La Pira fu guidata dal versetto del
Vangelo di Lc. 14, 21: “…andate per i crocicchi delle strade e chiamate
quanti trovate, poveri, ciechi, storpi, zoppi, e conduceteli qui affinché si
riempia la mia casa…”. Il suo è stato un impegno che ha sempre avuto il
carattere dominante della solidarietà e del recupero dei più emarginati.
A proposito della diffidenza di certi cattolici verso
l’impegno politico, La Pira – ricorda Savino – diceva “Non si dica quella
solita frase poco seria: la politica è una cosa ‘brutta’! No: l’impegno
politico è un impegno di umanità e santità: è un impegno che deve poter
convogliare verso di sé gli sforzi di una vita tutta tessuta di preghiera e
meditazione, di prudenza, di fortezza, di giustizia e di carità.”
Sono queste ultime le raccomandazioni di La Pira per i cattolici impegnati
in politica: preghiera e meditazione, prudenza e fortezza, giustizia e carità.
Giuseppe Dossetti
Anche
Dossetti, come gli altri testimoni scelti da Savino, è stato un brillante
studente di Giurisprudenza, che si laurea giovanissimo e che diventa docente
universitario.
Sono note le differenti visioni politiche tra lui ed Alcide De Gasperi rispetto
al ruolo del governo ed a quello del partito, della Democrazia Cristiana.
Dossetti riteneva di far prevalere sul metodo della manovra governativa e del
patteggiamento di gabinetto il metodo dell’azione organica di partito,
formativa e suscitatrice in strati sempre più vasti di uno slancio collettivo
vitale e rinnovatore. La DC che Dossetti ha in mente è un movimento di
testimonianza del radicalismo evangelico, non un mero partito politico testo a
conquistare la maggioranza di governo per garantire la difficile transizione
secondo le normali regole della politica.
De Gasperi era favorevole ad una idea di partito secondo cui il governare
attraverso il dibattito (government by discussion) si realizza in
Parlamento, mentre al partito spetta solo l’agitazione elettorale per la
conquista dei seggi in parlamento e per il sostegno dell’opinione pubblica
all’azione parlamentare e di governo. Dossetti, invece, era favorevole ad una
idea di partito dove si esercita il government by discussion, sottratto
al Parlamento, perché lì si va a portare solo la volontà già elaborata dal
partito. Una grande differenza sostanziale. Forse ancora più se rapportata ai
nostri tempi: qual è il luogo deputato alla formazione della volontà politica,
il partito o il Parlamento?
Grazie a Dossetti, la presenza civile dei cattolici nella
vita politica italiana viene rafforzata dall’esperienza costituente (contro chi
– anche in ambienti ecclesiali – reclamava quasi una Carta “integrale”, una
rivoluzione proletaria o il regno di Cristo in terra, dice Savino).
Si parla spesso del contributo dei dossettiani (ironicamente indicati in
Parlamento come “il gruppo dei professorini”) alla Costituente. A loro il
merito della impostazione personalistica dei diritti di cittadinanza, della
fondazione della Repubblica sul lavoro, dei limiti costituzionali ai poteri
dello Stato, del rilievo dei partiti moderni come pilastri dello Stato.
Per Dossetti la Costituzione non doveva essere un mero insieme di regole in
senso liberale; soprattutto, doveva costituire un atto morale, un documento
programmatico, intriso di principi etici e morali, in opposizione al
liberalismo classico, considerato troppo formalista. Non a caso, l’elemento
cardine e centrale della costruzione è la persona: la persona, prevalente
rispetto allo Stato. A Dossetti non interessa la polemica “più Stato, meno
Stato”; gli interessa il “grazie allo Stato”. Gli interessa uno Stato dinamico
che favorisca le preesistenti relazioni sociali di comunità, che segua la
persona umana in movimento. Gli interessa lavorare per una Costituzione che
diventi strumento laico di crescita delle relazioni sociali di un paese, con la
possibilità di andare oltre la concessione e la carità trasformando le
conquiste sociali di ciascuno o di ciascuna categoria in un bene di tutti. Bene
comune, per l’appunto.
Tutta la vita di Dossetti è un rivendicare il modo di essere e di vivere rispetto a quello di operare. Non è possibile comprendere la sua azione politica trascurando il suo riconoscere il primato del bios teoretikòs sul bios politikòs, della vita contemplativa sulla vita attiva, della vita orante di ricerca e di studio sull’azione, in modo da diffondere tra i laici cristiani una formazione ed un pensiero che stia a monte dello stesso pensiero socio politico. Non a caso Dossetti rivendica il primato dell’uomo interiore, riconoscendo il valore della vita monastica quale diverso modo di intendere la presenza del cristiano nel mondo, tra la fede e la storia.
Aldo Moro
In
questi miei appunti sul libro di Savino, ho invertito l’ordine: Savino parla
prima di Aldo Moro, poi di Giorgio La Pira e Giuseppe Dossetti.
Savino esordisce su Aldo Moro descrivendolo così: cristiano per scelta, leader
per vocazione.
Parlare di Aldo Moro è complicato. È stato uomo politico, statista, docente
universitario, educatore, uomo di cultura, cristiano impegnato in politica. A
me personalmente dispiace che si parli più del suo rapimento, che delle sue
iniziative ed intuizioni politiche; meno che mai dei suoi insegnamenti.
Moro aveva una profonda vocazione politica, ma ispirata
dalla fede. Nella sua vita, pubblica e privata, compare sempre l’aspetto della
sua dimensione di fede.
Si potrebbero dire tante cose su Moro. Forse ne basterebbe una, fondamentale:
il suo collocare, sempre, nella sua riflessione, nella sua azione, da ogni
punto di vista, la persona al centro. Non poteva che essere così, per un
giovane che, nel particolare contesto storico della vigilia della II guerra mondiale,
proponeva come tema di studio quello dell’umanesimo cristiano, tema legato
all’umanesimo integrale di Maritain, il cui testo era stato pubblicato nel
1936. Quella visione, la persona al centro, ha guidato ed ispirato tutta la
vita ed il percorso di Moro, sempre.
In maniera coerente e conseguente, l’esigenza di Aldo Moro è stata sempre
quella di porsi e calarsi interamente dentro la storia degli uomini. Una
visione a lui molto cara, elaborata attraverso lo studio di autori tra le sue
fonti privilegiate, Vico e Blondel.
Se si volesse riassumere la vita di Aldo Moro in poche battute, si dovrebbero annotare la grande esigenza di formazione, per sé, prima ancora che per gli altri e per poter educare gli altri (non volle mai cessare il suo impegno universitario, continuando sempre agli incontri di lezione con gli studenti), nonché la centralità della persona, il porre la persona, l’individuo, sé stessi, dentro la storia degli uomini.
* * *
In
conclusione, cosa accomuna i tre “testimoni” di Savino? Il riconoscere il
primato dell’uomo interiore.
Quando si parla di impegno dei cattolici in politica, a mio parere si commette
spesso un errore: si parla di “eredità” dei cattolici in politica. Come se si
trattasse di un percorso finito, morto. A mio parere si tratta di un errore
metodologico; direi addirittura ontologico, che riguarda profondamente
l’essere. Perché l’impegno dei cattolici in politica non può essere oggetto di
eredità per il semplice motivo che non può morire, costituendo – invece –
l’essenza tipica, la caratteristica genetica, imprescindibile della loro
vocazione: l’animazione dell’ordine temporale, in ogni sua manifestazione,
compresa la forma più alta di animazione temporale rappresentata dall’impegno
politico.
Si legge poco. Molto poco. Meno che mai se si tratta di “saggistica”.
Personalmente sono convinto che sull’impegno dei cattolici in politica si sia,
invece, scritto troppo. Perché dopo la frase contenuta nei documenti conciliari
che affida l’animazione dell’ordine temporale in capo ai fedeli laici,
quantomeno non doveva più esserci modo di dubitare l’urgenza e l’essenzialità
di questa missione. Invece, molti continuano a storcere il caso.
Cosa è mancato, ben oltre le tonnellate, pagine e pagine di volumi, di convegni
e di dibattiti? Cosa è mancato, dunque, nonostante gli approfondimenti teorici
e dogmatici pure ci siano? A mio parere una cosa. Una cosa sola: la concretezza
della testimonianza. Il saper trasformare valori di riferimento in azione di
vita, in responsabilità, in storia, con assunzione diretta di questo specifico
impegno missionario. Non sono mancati – certo – i tentativi; purtroppo molti
sono risultati infelici, con risultati devastanti per il mondo cattolico.
Dunque, il grazie sincero a Francesco Savino è sì quello di
averci proposto tre esempi nobili, tre testimoni esemplari, che di questa
missione ne hanno fatto ragione di vita; soprattutto, è quello di aver
accentuato il carattere di “uomini di fede” di questi tre esempi. Profondamente
politici, perché profondamente cattolici. La loro fede, porta alla politica.
Non il contrario, quando molti – purtroppo – sono pronti a strumentalizzare la
buona fede dei molti, tanti, cattolici.
Il lavoro di Savino apre una riflessione. Quale soluzione per il decadimento
della politica? La risposta, anch’essa in due parole, particolarmente profonde
e che richiederebbero altri studi, riflessioni, dibattiti, è imparare a
“stare nella storia”. Servono cattolici veri e seri. Dove sono? Ce li
avete? Ovunque collocati negli schieramenti politici, ma veri e seri, cioè
coerenti con la fede che professano. Coerenti, attenti e preparati. Cerchiamoli
e favoriamoli. Ma lontani dal web, che ormai trasferisce direttamente in
Parlamento comuni leoni da tastiera. Nel frattempo…cominciamo con il far tesoro
dello studio del libro di Savino.
P.S.:
Francesco
Savino nel suo intervento conclusivo ha richiamato l’esigenza preliminare di
prestare attenzione alle parole, recuperando quella che ha chiamato “etica
delle parole”. Lo ha fatto chiedendo attenzione sulla parola “politica”, sulla
significazione del termine. Ha precisato che “…occorre rendere la politica
parte centrale della nostra fede…” e che è sempre più necessario spendersi
per una “…politica generativa che vada oltre l’economia e la tecnica…”.
I cattolici sono scomparsi. Invece è necessario che tornino all’impegno
politico, ma recuperando il senso della spiritualità di questo impegno. Perché,
secondo la tesi ispiratrice del libro, la politica è sì laica, ma richiede una
profonda spiritualità. Con tre caratteristiche essenziali che richiedono al
politico, tanto più al cattolico impegnato in politica: competenza, umiltà,
moralità.