Quei camion militari che lasciano Bergamo con il loro carico di bare, di notte, quasi di nascosto, costituiranno un ricordo indelebile. Non c’era posto per quei corpi, né tempo né modo per cremarli. Sono stati cremati altrove, con le ceneri poi restituite ai familiari. Come è stato impossibile l’ultimo saluto, altrettanto impossibile qualunque forma di esequie.
La morte è entrata dirompente nella ordinarietà della vita. Non della vita dei familiari che perdono i propri cari, né in quella degli amici più vicini; ma della vita di un popolo intero, fatto da persone anche lontanissime e sconosciute, al pari della vita di altri popoli, ancor più lontani, alla prese con il medesimo evento. Siamo abituati a temere la morte e ne accompagniamo il suo arrivo con riti che, per quanto diversi per forme e costumi, sono presenti in ogni parte del mondo. Condanniamo inorriditi i crimini delle fosse comuni, che negano l’identità, cioè quel poco che può sopravvivere ad un corpo ormai esanime.
La morte, parte ultima dell’albero della vita, segna il culmine della catastrofe. Più di qualcuno ha provato a sdrammatizzare facendo circolare sul web un meme di un funerale ghanese, un ballo stravagante con un feretro in spalla ad un gruppo di ballerini. Una usanza popolare che in quella terra ha le sue ragioni tradizionali; da noi, più che un modo per esorcizzare il dolore, è parso un divertimento inopportuno. Quasi un dileggiare quelle bare ed i corpi che contenevano. Nella migliore delle ipotesi, un tentativo mal riuscito di voler addolcire la morte, che ci fa paura.
Siamo tra quelli che giudicano la morte corporea una mera appendice della vita. La morte è la cessazione di un dato fisico il cui aspetto essenziale è la vita. Non può esserci morte, il momento terminale, in mancanza di vita. Ed anche se cessa la vita, permangono i ricordi.
Esiste un periodo variabile, più o meno lungo, che nessuno conosce, durante il quale ognuno è chiamato a valorizzare sé stesso ed è la propria esistenza in vita. Nell’incertezza, si spera di giungere a traguardi di durata; si spera nell’adolescenza, nella giovinezza, fino all’età matura per poi giungere alla vecchiaia. Nessuna sicurezza, se non la speranza. Anche la vecchiaia ha la sua speranza: la speranza in qualcosa che accompagni e vada oltre la vita, superandola. Viviamo desiderando. Desideriamo avere figli, progettiamo il futuro, aspiriamo ad essere ricordati, ci impegniamo ad ottenere benefici materiali o sociali. Una costante tensione verso un traguardo.
La incognita della durata, che appartiene alla superiore imperscrutabile conoscenza dell’Unico che da principio tutto genera e tutto muove, ci chiama ad amare la vita, cogliendone la bellezza di ogni suo singolo momento, anche in prospettiva di una vita altra. C’è chi la chiama morte; c’è chi la chiama Vita Eterna. Di certo solo rispettando la vita nella sua essenza più profonda può comprendersi il passaggio successivo. Solo amando fino in fondo la vita e la sua ricchezza di occasioni può guardarsi con serenità al passaggio successivo.
L’allontanamento corporeo, nella sua drammaticità, non può farci paura. Deve preoccuparci la tutela della vita. Deve animarci, in vita, un’antropologia che guardi all’esistenza come un dono e che faccia della regola dell’amore il segreto della crescita comune. Ciò di cui dovremmo preoccuparci non è il trapasso biologico, ma la mancanza di amore, il non amare che ci riduce alla solitudine, vera morte prematura.
Siamo tutti legati alla vita e nella vita, la cui materialità continua negli altri anche senza di noi. Noi siamo di passaggio; la vita ci supera, resta ed avanza oltre di noi. Per tutti, insieme, oltre la vita, c’è la porta verso una differente dimensione la cui preparazione si svolge nel percorso che la precede. Più che temere la morte, dovremmo imparare a considerarla un cambiamento di condizione. Non un salto nel buio, ma una trasformazione, una diversa e più duratura nascita a nuova patria.
Una vita armoniosa, solidale, rispettosa di tutto e tutti, ci guida a comprenderne la fase terminale, verso, infine, la superiore prospettiva, quella che recitiamo nel “Credo”, allontanandoci dal giudicare negativamente il distacco terreno. Aprirci al magnifico incanto della vita può guidarci nel comprendere la nuova nascita, il nuovo battesimo che ci rende creatura nuova. Come la nascita dell’albero rinato dal seme marcito sotto terra e che punta ancora verso l’alto.
Nel capire questo senso profondo della vita sta la sconfitta della paura della morte. La risposta alla domanda, tenera e consolatoria, “perché piangi?”, non può che essere quella dell’invito a correre per dare avviso del nuovo percorso, prima incomprensibile.
(contributo pubblicato nella rivista bimestrale "Vivere In", n. 3-2020, pag. 49)
https://www.vivere.in/2020/07/rivista-vivere-in-n-32019-2-2-2-2/