Ateneo di Bari, Aula Magna, 06.06.2011, intervento conclusivo dopo la presentazione del libro. Qualche tempo fa ho trovato in libreria un saggio di una
ricercatrice universitaria di Bari, a metà tra sociologia e statistica,
come capii solo dopo averlo letto, ma dal titolo emblematico: Fare o non fare politica.
Questo dubbio – se volete il disagio di questa scelta – l’ho già
superato da tempo. In maniera affermativa. Rimane il problema, molto più
gravoso, di capire come fare politica. E voi, che venendo a questa conversazione mostrate interesse nel pensare ad un diverso modo di fare politica avete un bel coraggio! Perché oggi è già un rischio parlare di politica, come è un rischio tentare una definizione della politica; è altrettanto rischioso parlare di dialogo ed altrettanto il tentare una definizione di dialogo. Figuriamoci, allora, il tentare di aprirsi al tema della politica del dialogo! Grazie
per questo vostro “coraggio”. Soprattutto, grazie a chi ha voluto
questo incontro: al Prof. Michele Indellicato, che ha trovato, poi, la
gentile disponibilità del Prof. Antonio Uricchio, del Prof. Giuseppe
Elia e del Prof. Vincenzo Servedio. I tre relatori che mi hanno
preceduto hanno colto pienamente il senso, lo scopo ultimo del lavoro.
Come lo ha colto - addirittura senza leggerlo - l'Autore della sua
copertina, il Prof. Gio' Mazzone, che oggi pubblicamente ringrazio. Due
distinte impronte, di colore rosso e nero, che nel nostro immaginario
richiamano identità opposte, provenienti da direzioni opposte, da destra
e da sinistra, si scontrano in un groviglio inestricabile. Subito dopo,
però, intraprendono un percorso comune, pur mantenendo le loro
originarie rispettive identità. Un significato straordinario! Riterrei
che questo lavoro, a prescindere da quello che ho scritto in dedica,
possa essere in realtà dedicato a tutti voi: ai giovani. Perché è
essenzialmente finalizzato ad una nuova sfida. Per questa ragione spero
che la vostra presenza in quest’aula non sia limitata ad uno sporadico
episodio del vostro percorso accademico. Sarò, invece, felicissimo se,
al termine di questa conversazione, non vi sia venuto il dubbio che si
possa pensare alla politica in maniera diversa. Mi rendo conto che si
tratta di una “sfida”. Questo mio lavoro tenta di lanciare una nuova
proposta, una nuova prospettiva che compare nelle prime pagine e vive
fino all’ultimo capitolo, emergendo nel suo significato più pregnante
solo all’ultima nota: capire (auspicandola!) se alla prevalente attuale
concezione della politica, scomposta, aggressiva, sopraffatta da
assordante rumore, generante un disagio che disorienta sempre più, possa
opporsi, favorendola, una politica costruita attraverso il dialogo
vero, riscoprendo valore ed importanza di esso e, soprattutto, silenzio ed ascolto quali
suoi elementi imprescindibili. Il tutto per tentare una missione che
appare ai più tanto impossibile quanto disperata: quella di combattere i
sentimenti di delusione, scetticismo e disaffezione dalla politica.
Quello che Gadamer ha chiamato “patologia del disincanto” e che pochi
minuti fa il prof. Servedio ha richiamato parlando della “sindrome del
disorientamento”. La soluzione, la cura, la prospettiva nuova che si vuole proporre, come un possibile nuovo metodo per fare politica, è il riconoscere e rivendicare il primato del dialogo. Per evolversi ed evolvere anche la politica esiste solo uno strumento: quello del dialogo,
che consente di acquisire ed accogliere esperienze e tradizioni
diverse, a volte comuni, che nascono e si sviluppano di continuo e nel
quotidiano. Soprattutto, la sfida è quella di lavorare, costruire,
contribuire a dare nuovo vigore ad una nuova e diversa cultura educativa, che veda nel rispetto dell’altro e nel dialogo gli strumenti per una civile e produttiva convivenza. L’auspicio per una civiltà dialogica è quello per l’apertura all’altro. A tutti gli altri
possibili. Attraverso questa scoperta si passa dalla presenza e
dall’azione al dialogo, dal dialogo alla convivenza universale, verso
una società che possa diventare effettivamente globale e civile. È la
scoperta del valore e della supremazia del dialogo, non solo quale strumento metodologico, bensì quale stile di vita, prassi, ethos: la vita stessa come dialogo. La chiave di lettura è quella del riconoscere il primato della parola, anzi del logos.
Poi ognuno lo interpreti come meglio ritiene: come principio di
ragionevolezza del mondo classico; come mero “principio del dialogo”,
del capire l’altro; come Logos proposto dalla patristica, in
grado di racchiudere e ricondurre in sé ogni verità. Soprattutto – ed in
conclusione – ricordandoci sempre, con grande umiltà, che il primato
del logos richiede sempre una continua, mai doma, ricerca. Una infinita “ricerca”: quell’exetàzein socratico
che mi piace citare in conclusione proprio perché siamo ospiti di un
ambiente accademico, che vive di quotidiana “ricerca”. Vi ringrazio
ancora per l’ospitalità e per l’attenzione. Concludo rivolgendomi agli
“accademici”, soprattutto al Prof. Indelicato: in sede di esame siate
benevoli nei confronti di questi ragazzi che hanno avuto il coraggio di
venirmi ad ascoltare.