Huc pauci vestris adnavimus oris. Quod genus hoc hominum? quaeve hunc tam barbara morem permittit patria? hospitio prohibemur harenae; bella cient primaque vetant consistere terra. Si genus humanum et mortalia temnitis arma, at sperate deos memores fandi atque nefandi.
Qui, in pochi, nuotammo alle vostre spiagge. Che razza di uomini è questa? O quale patria permette una usanza così così barbara? Ci negano l’ospitalità della sabbia; dichiarano guerra e ci vietano di fermarci sulla terra più vicina. Se disprezzate il genere umano e le armi degli uomini, temete almeno gli Dei, memori del giusto e dell’ingiusto.
Sono i versi da 538 a 544 tratti dal primo libro dell’Eneide, il poema epico scritto tra il 29 a.C. ed il 19 a.C. dal poeta latino Publio Marone Virgilio. L’opera ha costituito per decenni uno dei pilastri della nostra formazione scolastica, sia per meriti letterari, sia perché narra, sia pur sotto forma di racconto epico, la nascita di Roma. Un’opera che in questi tempi, tempi di migrazioni, acquista un’attualità particolarissima, narrando la storia di questi profughi, nostri lontanissimi antenati, che per fuggire al disastro della guerra e della distruzione di Troia viaggiano per anni, girovaghi nel Mediterraneo, spinti da venti e tempeste, trovando morti e naufragi, fino a giungere alle sponde del Tevere, nel Lazio, dove diventarono la progenie del popolo romano, di Roma, della nostra Italia.
Questi versi raccontano il momento in cui i troiani, guidati da Enea, insieme ai suoi compagni e dopo ben sette anni di navigazione, sono vicinissimi alla coste della Sicilia, ma vengono sorpresi dalla tempesta. Una tempesta eccezionale scatenata dalla dea Giunone, sempre ostile ai troiani, con la complicità di Eolo, re dei venti. Fortunatamente anche Enea ha i suoi protettori tra gli dei e, così, aiutato da Nettuno, dio delle acque, riesce a salvarsi e con sette delle sue originarie venti navi approda sulle coste della Libia. Qui chiede ospitalità a Didone, regina di Cartagine, attraverso la parole del vecchio Ileoneo, parole che, nel tempo, si sono consolidati come un inno all’ospitalità in favore del naufrago.
Cosa ci resta, oggi, di questa invocazione, di questo grido di salvezza? Forse il solo divino affidamento, mancando adeguata sensibilità di accoglienza da parte degli uomini? Si obietta come, in realtà, Virgilio con il suo poema celebri la gloria di Roma e della futura Italia, con Enea che, una volta sbarcato nel Lazio, finisce con il far guerra con i popoli del luogo e fondare una nuova civiltà, il nuovo popolo italico, spazzando via civiltà, popolo e tradizione presente. Ma a noi non interessa lasciarci trascinare in una banale polemica sulla lettura “politica”, più o meno di parte, di un brano letterario. Tanto meno spenderci sulla differenza tra naufraghi e migranti. Quel che ci interessa è il senso profondo sotteso dalla parole di Ileoneo (“Che razza di uomini è questa, che ci nega perfino l’ospitalità della sabbia?”) perché possano servire ad introdurre una serena, pacata ed obiettiva riflessione. Quella che – ci permettiamo di ritenere – sia mancante ogni volta che si affronta il tema della immigrazione.
(pubblicato nella rivista "Vivere In", 6/2023, pag. 36)