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"Un giudice come Dio comanda" | Diritto | Eugenio Scagliusi

Eugenio Scagliusi

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"Un giudice come Dio comanda"

"Un giudice come Dio comanda"


Più di un mese fa un caro collega mi parlò di un incontro in programma per il pomeriggio di oggi, 18 Febbraio. Mi consegnò il biglietto di invito; mi bastò dargli uno sguardo per assicurargli la mia presenza. Era una conversazione occasionata dal libro “Un giudice come Dio comanda”, scritto a tre mani da Alfredo Mantovano (Giudice presso la Cassazione, oggi Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio), Domenico Airoma (Procuratore della Repubblica di Avellino) e Mauro Ronco (professore di Diritto Penale a Padova), con interventi programmati di Giuseppe Favale (vescovo della Diocesi di Conversano – Monopoli) ed Alfonso Pappalardo (Presidente Tribunale di Bari).

Il libro propone un esempio, un modello, un profilo: quello per ogni operatore del diritto attraverso la persona, la funzione, la testimonianza di Rosario Lavatino. Un giudice che, a parte ogni altra considerazione, animato da una grande fede, non aveva timore – tra tante altre cose – di rivendicare quale compito del giudice applicare sì la legge, ma con coscienza, oltre che con competenza. Con la peculiarità di porre la coscienza, come lui stesso scriveva, “S.T.D.”, acronimo inserito nei provvedimenti e che riassumeva la frase “Sub Tutela Dei”.

Strane, certe coincidenze, nella vita. In mattinata sono stato presente ad un convegno all’Università di Bari dal tema completamente diverso, trattandosi dell’ “interesse sociale” in capo alla impresa. Confesso che, ascoltando i relatori discutere di “interesse” e di come esso possa diversificarsi in capo ai vari protagonisti della vita della impresa, mi sono distratto pensato all’incontro pomeridiano. Pensavo a quel titolo, “Un giudice come Dio comanda” e mi interrogavo su quale potesse essere l’ “interesse”, inteso come “fine” da raggiungere, per un giudice, al pari di ogni operatore del diritto. Ho pensato che la risposta più immediata sarebbe: realizzare la giustizia.

Bel problema. Forse avrei risposto così fino a qualche tempo fa. Pur nelle complicazioni derivanti dal considerare come l’interesse di un avvocato spesso non coincide con quello del cliente, sempre persuaso delle sue ragioni e di “pretendere giustizia”. Solo che da qualche anno, dopo una trentina dedicati esclusivamente all’esercizio della libera professione forense, mi sono prestato anche all’attività di giudice onorario. E da allora la situazione si è complicata e non poco. Perché si coglie ancor più direttamente il contrasto che angoscia ogni operatore del diritto: l’esigenza (l’interesse) di giustizia, ovvero la propensione verso un certo ideale, e la sua mancata realizzazione. Un contrasto che emerge dalla insufficienza (o non adeguatezza) delle norme e del diritto in generale a cogliere e comprendere il fatto. È difficile comprendere il fatto. Quel fatto storico di cui pure il diritto si nutre e che è chiamato a governare. Peraltro la norma, ogni legge in genere, è del tutto insufficiente al fatto, perché lo schematizza e perciò non è in grado di fornire una giustizia concreta. La norma è generale. Non può che essere tale. Il fatto è particolare, specifico, concreto e riferito al singolo caso del singolo individuo, in antitesi alle valutazioni astratte e generali, come previste dalla norma.

Ecco il contrasto angosciante: cogliere l’esigenza (l’interesse) di giustizia e comprendere come essa difficilmente possa realizzarsi rispetto a quelle, antitetiche, di cui sono portatori i protagonisti del fatto. E se è impossibile garantire e salvare l’interesse rappresentato dal singolo, dall’individuo, ne consegue quella che Francesco Carnelutti teorizzava come “la morte del diritto”. Giungendo finanche ad una conclusione che ai giuristi appare paradossale e quasi blasfema: bisogna liberarsi dal mondo del diritto e sostituire le sue leggi con quelle della morale, della carità, dell’amore. Solo che, come lo stesso Carnelutti, da fine giurista e studioso annota, è che “…fino a che gli uomini non sappiano amare, non c’è altro mezzo che obbligarli…Vi è, a un certo punto della catena, un uomo che si occupa degli altri non perché deve ma perché vuole…La volontà è il culmine dello spirito e l’amore è il suo fondamento. E tale è la fonte del diritto, cioè del dovere, che altro non è se non il mezzo che si offre agli uomini affinché la divisione si converta in unità. E l’unità del mondo si chiama amore…”.

Questo mondo ha per l’appunto bisogno di modelli e testimoni come Rosario Lavatino, attento alla norma ma attento parimenti alla vita, con il disagio che ogni operatore coglie tra legge positiva e legge morale.

Presente con piena convinzione di partecipazione all’incontro pomeridiano, ho voluto proporre queste considerazioni ai relatori ed al pubblico. Qualcuno ha storto il naso; qualcuno ha compreso. In fondo, anche questo risultato è del tutto naturale e fa parte di quell’angosciante e contrastante disagio, comune ad ogni operatore del diritto.

È stata una bella giornata.