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Nuove genitorialità, tra complicazioni e contraddizioni | Diritto | Eugenio Scagliusi

Eugenio Scagliusi

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Nuove genitorialità, tra complicazioni e contraddizioni

Nuove genitorialità, tra complicazioni e contraddizioni


Le nuove forme di genitorialità, in particolare la “maternità surrogata”, continuano ad occasionare interventi giudiziali. Due i casi più recenti.

Il primo non presenza particolari elementi di novità per il nostro ordinamento giuridico: nel caso di una “maternità surrogata” tra coppia omosessuale, il bambino nato all’estero può essere riconosciuto in Italia solo dal papà biologico, riservandosi al “partner” l’opzione dell’adozione, non potendosi trascrivere nell’atto di nascita in Italia la doppia genitorialità.

Il secondo caso appare, forse, più complesso e delicato, riguardando la fase patologica della cessazione del rapporto genitoriale a causa della separazione tra una coppia omosessuale, con difetto di assenso espresso da parte dell’unico genitore biologico all’adozione del bambino (nato all’estero a seguito di “procreazione medicalmente assistita” non consentita in Italia) da parte del “partner”.

 

Nel primo caso due uomini, legati da una relazione sentimentale, hanno chiesto al Comune la trascrizione dell’atto di nascita redatto all’estero e nel quale entrambi erano indicati come padri di un bambino nato con Procreazione Medicalmente Assistita. Il Comune ha negato la trascrizione, essendo in Italia normativamente consentito indicare come genitore solo il padre biologico. Per l’altro padre, il c.d. “padre intenzionale”, ossia il “partner” del padre biologico, vi è solo la possibilità dell’adozione. Il diniego del Comune è stato fatto oggetto di ricorso fino in Cassazione, dinanzi alla quale i due genitori hanno ribadito la necessità di essere riconosciuti entrambi come tali in ragione “…del vuoto normativo in materia di diritti dei minori nati dalla maternità surrogata…”, lamentando la illogicità di mantenere sospesa la tutela di questi minori nell’attesa di una legge.

 

La Cassazione (sentenza n. 26967 del 21.09.2023), confermando il proprio orientamento in materia, ha giudicato che il diritto al riconoscimento, anche giuridico, del minore nato all’estero mediante maternità surrogata è garantita nel nostro Ordinamento solo attraverso lo strumento dell’adozione. L’adozione, infatti, “…consente da un lato di conseguire lo stato di ‘figlio’ e dall’altro di riconoscere il legame di fatto con il ‘partner’ del genitore genetico che ne ha condiviso il disegno procreativo concorrendo alla cura del bambino sin dal momento della nascita…”. Soprattutto, conclude la Cassazione, “…il compito di adeguare il diritto vigente alle esigenze di tutela degli interessi dei bambini nati da maternità surrogata – nel difficile bilanciamento tra la legittima finalità di disincentivare il ricorso a questa pratica e l’imprescindibile necessità di assicurare il rispetto dei diritti dei minori – compete al Legislatore…”, al quale deve riconoscersi “…un significativo margine di manovra nell’individuare una soluzione che si faccia carico di tutti i diritti e i principi in gioco.”

 

Nel secondo caso, cessata la convivenza e la relazione sentimentale tra due donne, si era verificata una elevata situazione conflittuale, tale che le stesse si accusavano reciprocamente di gravi comportamenti in pregiudizio del minore, anch’esso nato all’estero attraverso la Procreazione Medicalmente Assistita. Così, la genitrice naturale aveva revocato il consenso – in precedenza prestato – all’adozione del minore da parte della “partner”. Quest’ultima si era rivolta ai Giudici, che sia in primo che in secondo grado avevano respinto la domanda di adozione affermando che l’assenso iniziale non solo dovesse essere mantenuto anche nel corso di tutti i gradi di giudizio, ma che – soprattutto – potesse essere revocato.

 

In questo secondo caso la Cassazione (sentenza n. 25436 del 29.08.2023) ha invitato i Giudici di Secondo Grado a riconsiderare se il dissenso espresso dal genitore biologico non finisse con il “…sacrificare uno dei rapporti sorti all’interno della famiglia nella quale il bambino è cresciuto, privandolo di un apporto che potrebbe invece essere fondamentale per la sua crescita e il suo sviluppo.” Dunque, la questione dovrà essere oggetto di un’ulteriore valutazione giudiziaria.

 

In entrambi i casi finiti nella Aule di Giustizia, elemento di interesse e di discussione, dinanzi alle nuove forme di genitorialità che il tempo presente produce, è quello del minore. Anche la nostra riflessione, prescindendo da ogni valutazione di carattere giuridico, verte sul poter comprendere quale ed in cosa consista l’effettivo interesse del minore, tanto più se da valutarsi rispetto al progetto genitoriale comune ed il periodo di cura ed accudimento svolto dai due genitori nel periodo di convivenza, così da non sacrificare crescita e sviluppo del minore.

 

Ebbene, ci sembra che in questa materia si giochi un po’ a mischiare le carte. Se i giudici, costretti ad occuparsi di questi casi anche a causa di un vuoto normativo, si preoccupano (giustamente) di tutelare l’effettivo interesse del minore rispetto al progetto genitoriale, non è affatto chiaro come questo interesse si declini e, quindi, secondo quali criteri esso vada ricercato. Così la questione, pur proposta ai Giudici da parte dei genitori, viene dalle Corti risolta – da ultimo – attraverso valutazioni ed analisi prettamente psicologiche che i Giudici sono quasi obbligati ad affidare a loro consulenti. Inoltre, gli stessi Giudici invitano ripetutamente il Parlamento a colmare i vuoti legislativi presenti sulla materia. A sua volta il Parlamento, cui compete la funzione legislativa, soffre le profonde divisioni che si registrano ogni qual volta vengano in discussione i temi eticamente sensibili. Insomma, quella della maternità tra coppie omoaffettive è questione che c’è, esiste, si pone e sempre più spesso si realizza, così assecondando i desideri delle coppie; ma inquadrarla in una disciplina giuridica organica si rivela ancora più impegnativo delle enormi complicazioni che anche la sua pratica richiede. 

 

La difficoltà sta, forse, nella circostanza, in parte dettata anche da considerazioni che diremmo politically correct, che dinanzi alle nuove forme di unione (o finanche di genitorialità), comunque presenti nella società e di cui occorre tener conto, occorrerebbe maggiore fermezza di decisione. Se in qualche modo si prova a riconoscere progetti di formazione della famiglia diversi da quella tradizionale ed indipendenti dal dato genetico, è solo perché si considera che il frutto delle unioni, quali esse siano e comunque realizzate, sia un bambino del tutto innocente ed ignaro dei desideri dei genitori e che, dunque, vada tutelato. Dunque, si cercano ed invocano soluzioni.

 

Ma non è affatto detto – ci permettiamo – che le nuove realtà sociali, pur presenti e con le quali occorre comunque civilmente convivere e confrontarsi, assurgano a livello di interesse pubblico tale da ottenere giuridico riconoscimento e tutela dall’ordinamento. La nostra opinione (più volte espressa in questa Rivista) è che la pratica della maternità surrogata si presti ad abusi e che, come la Corte Costituzione ha ribadito in varie occasioni, essa offenda la dignità della donna, minando peraltro nel profondo le relazioni umane.

 

Quella surrogazione di maternità, con – a seconda dei casi – un utero, gameti o embrioni fatti oggetto di mercificazione (anche a prescindere dalle forme di pagamento), è una tecnica che trasforma l’essere umano concepito da soggetto di diritto, titolare di diritti, ad oggetto di diritto. Ma strutturare il diritto come lontano e distinto dall’etica conduce ad un pericoloso relativismo. Il dato reale, biologico, non può essere affatto trascurato.

Basti considerare che a quell’essere umano, che si sviluppa e cresce, nascituro, in un grembo, viene sostanzialmente negata la personalità, risultando e diventando un mero oggetto di scambio. E quand’anche si voglia finanche discutere e dubitare se quell’essere sia o non sia persona, appare gravissimo che si giunga addirittura alla sua degradazione a res, una cosa da parificare ad un oggetto di cui si può disporre liberamente.

Quello della filiazione, desiderio presente in ogni essere umano, da desiderio si trasforma in “diritto”. Lo voglio, lo pretendo e lo faccio; a qualunque costo o condizione. Desiderio, però, non coincide con diritto; né possibile vuol dire lecito; e né, ancor più, tutto ciò che è pur possibile con la tecnica diventa, in quanto tale, lecito.

 

Si consideri che al frutto di quella maternità viene negata la propria identità biologica e storica. Si consideri come la donna diventi strumento riproduttivo, così mutilandone il ben più complesso ruolo che si instaura con il concepito durante la gestazione, ma che dura ben oltre la nascita. Si consideri come addirittura e non molti decenni fa, la pratica della programmazione di bambini costituì una delle fasi sperimentali della folle realizzazione della razza superiore.

 

La filiazione naturale, invece, ha costituito da sempre il fondamento della società. Pensare che possa essere sostituita da unioni genetiche, dunque meccaniche, rendendo indifferente che quella unione non si realizzi tra persone di sesso diverso, significa riconoscere che ognuno di noi, uno qualunque, possa nascere, crescere e vivere senza certezza di un padre e di una madre. Sono pratiche su cui dissentiamo. Perché profondamente diverse sono sensibilità e stati d’animo, caratterizzazioni e personalità, natura, qualità e caratteri, tra un uomo ed una donna. Sommessamente, riteniamo che il vero interesse del minore, crescere, essere accudito ed educato in un equilibrato contesto familiare, richieda la presenza di un uomo e di una donna. Accade da qualche migliaio di anni. In futuro potrebbe non essere più così. Tuttavia, l’accelerare a colpi di sentenze o finanche di leggi dettate da effimere e minoritarie manifestazioni sociali un differente sviluppo evolutivo ci sembra contraddire nel profondo proprio la dignità della persona umana, uomo e donna, simili, solo sessualmente diversi ma complementari ed ugualmente necessari alla vita.

 

Al desiderio di genitorialità vanno apposti limiti e precisati i confini. Uno, in particolare: quello che il bambino, già al momento del concepimento, sia considerato, riconosciuto e tutelato, rimanendo tale, per sempre, come soggetto e non già oggetto di diritto. Ferma questa fondamentale premessa, tutto il resto è consequenziale. Compreso il vietarne pratiche di contrattualizzazione e – peggio ancora – di commercializzazione. Ci sembra di ricordare che queste due pratiche, compressione dei diritti della personalità, anche quando temporanee, appartenevano al mondo della schiavitù, che per fortuna il progresso e la coscienza sociale hanno abolito in tutto il mondo civile.

Ed ecco la contraddizione finale. Strano, questo nostro mondo civile: da un lato favorisce la tecnica ed il progresso scientifico e dall’altro lato consente che questa tecnica e questo progresso incidano negativamente su sé stesso.

(pubblicato nella rivista "Vivere In", 5/2023, pagg. 18 - 21)