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Il fenomeno migratorio. La inadeguatezza di un sistema meramente sanzionatorio. | Diritto | Eugenio Scagliusi

Eugenio Scagliusi

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Il fenomeno migratorio. La inadeguatezza di un sistema meramente sanzionatorio.

Il fenomeno migratorio. La inadeguatezza di un sistema meramente sanzionatorio.


(di Dalila Scagliusi)

La gestione del fenomeno migratorio costituisce uno dei nodi cruciali dell’attuale dibattito socio-politico, in un contesto globale caratterizzato da crescenti flussi e sfide sempre più complesse connesse alla convivenza di diverse culture.

Si parla sempre più di “crisi migratoria”, locuzione sagace che tenta di nascondere un sostanziale deficit di competenza e di abilità da parte degli Stati nella gestione di questo fenomeno, troppo spesso erroneamente ridotto ad una problematica di mera sicurezza pubblica, nell’accezione tradizionale di mantenimento dell’ordine pubblico, in contrasto con quella tendenza, emersa già da tempo in altri settori, come quello del governo del territorio, che, sia a livello europeo che nazionale, configura la sicurezza come condizione per il godimento dei diritti fondamentali, strettamente connessa alla dignità umana.

Conseguenza diretta del fenomeno migratorio è il multiculturalismo, inteso come quella condizione sociale e ordinamentale che caratterizza in senso problematico lo Stato moderno, determinandone l’evoluzione verso forme particolarmente accentuate di pluralismo etico, religioso e culturale.

Già l’articolo 13 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 dichiara solennemente il diritto di ogni individuo alla libertà di movimento e residenza entro i confini di ogni Stato, nonché il diritto di lasciare qualunque paese, compreso il proprio, e di ritornarvi.

Questa disposizione costituisce la pietra miliare di una riflessione filosofica e giuridica risalente, che aveva inserito il diritto di migrare a pieno titolo tra i diritti fondamentali di ogni individuo.

Tuttavia, nell’ambito dei vari ordinamenti nazionali, compreso quello italiano, si assiste ad un netto sbilanciamento nella concezione dello ius migrandi, del diritto ad emigrare, a seconda che questo sia riferito ai cittadini o ai non cittadini. Si assiste, inoltre, non di rado, al radicamento di un diffuso atteggiamento di criminalizzazione dello straniero irregolare, definito dal Testo Unico sull’Immigrazione (d. lgs. n. 286 del 25.07.1998) come il cittadino di Stato non appartenente all’Unione Europea o l’apolide, presente sul territorio dello Stato, ma senza un regolare permesso di soggiorno o altro titolo di legittimazione.

Questa situazione che, a ben vedere, si sostanzia in un riconoscimento solo formale di una serie di diritti che non vengono poi accompagnati da garanzie sostanziali nella dimensione dell’effettività, appare paradossale.

Rispetto a questo orientamento la letteratura internazionale parla, di crimmigration, neologismo coniato nel 2006 dalla giurista statunitense Juliet Stumpf che allude proprio alla sovrapposizione e all’intersezione tra il diritto penale e il diritto dell’immigrazione, in funzione di almeno tre strategie convergenti di politica criminale: la previsione di conseguenze penalistiche (pene detentive e/pecuniarie) derivanti dalla violazione del diritto dell’immigrazione (criminal law consequencies for immigration law violations); la previsione di conseguenze amministrative connesse a condanne penali (mancata ammissione nello stato e espulsione); il ricorso a misure privative o limitative della libertà personale di tipo penalistico (arresto e detenzione funzionale all’espulsione) nell’ambito del diritto dell’immigrazione (criminal-type tools and procedures for immigration law violations).

Ne risulta, quindi, un sistema ibrido, una sorta di zona grigia ai confini con quella penale, che prende in prestito da questo tecniche e strumenti di tutela degli interessi pubblici in gioco, ma omette maldestramente di importare le garanzie della giustizia penale, che vengono, invece, sacrificate in nome di una maggiore efficacia e speditezza dell’azione di contrasto all’immigrazione irregolare e alla connessa criminalità.

A questo proposito, tra le voci più autorevoli in materia, Emilio Dolcini, docente di Diritto Penale all’Università degli Studi di Milano, si è fatto promotore di un dibattito circa i confini del diritto penale e sui suoi spazi di manovra che delimitano ciò che è considerato “pena” da ciò che non lo è; ciò che appartiene al sistema penale, e che, conseguentemente, è coperto dalle relative garanzie, da ciò che ne è estraneo e che si trova in una zona attigua, morfologicamente affine ma priva di corrispondenti presidi garantistici. Nella sua riflessione Dolcini ha evidenziato le sinistre affinità che accomunano la pena detentiva e alcune forme di detenzione amministrativa previste nell’ordinamento italiano per gli stranieri irregolari, specie in un contesto come il nostro, in cui l’ingresso o il soggiorno irregolare nel territorio dello Stato, così come la violazione dell’ordine di espulsione, costituiscono un reato punito con la sola pena pecuniaria, ai sensi degli artt. 10 bis e 14, comma 5 ter del d.lgs. n.286/1998 Testo Unito Immigrazione (reato di immigrazione clandestina). Pena che, peraltro, diventa meramente simbolica laddove si consideri che è destinata a colpire soggetti privi di risorse economiche, spesso anche sprovvisti di una precisa identità, che certamente non dispongono del denaro necessario per darle esecuzione.

Ci si chiede, allora, quale sia effettivamente lo scopo di questa pena pecuniaria e quale effetto di reale deterrenza possa avere, nel momento in cui è erogata nei confronti di chi nulla possiede. È difficile, infatti, credere che da una sanzione destinata a non avere alcuna effettiva applicazione possa provenire una spinta motivazionale deterrente alla futura commissione del medesimo reato (prevenzione generale negativa); così come non si può sperare di ottenere alcun effetto di orientamento culturale (prevenzione generale positiva) dalla punizione di un fatto – l’ingresso o il soggiorno irregolare – che l’immigrato percepisce, più che altro, come un traguardo indispensabile, punto di arrivo e di (ri)partenza, di un viaggio per il miglioramento della propria condizione di vita, più che come un vero e proprio disvalore.

Si commette un errore di fondo: analizzare il fenomeno migratorio soltanto dal punto di vista dello Stato che accoglie. In tal modo, infatti, si rischia di ottenere un quadro parziale, frutto di una visione etnocentrica e cieca rispetto alla questione migratoria pensata nella sua specificità, problematicità e interezza. Non bisogna, invece, trascurare come la migrazione sia il risultato di problemi strutturali e di disuguaglianze socio-economiche, che costringono le persone a cercare condizioni di vita migliori altrove.

Analizzare il fenomeno migratorio significa, quindi, confrontarsi con un sistema complesso, caratterizzato da una serie di contraddizioni per cui all’universalismo dei diritti umani si contrappone l’inclinazione alla conservazione dell’identità nazionale; alla crisi della sovranità territoriale conseguente all’integrazione europea e agli effetti della globalizzazione si contrappone una ritrovata difesa dei confini tramite regolamentazioni pervasive orientate al controllo delle frontiere e al contenimento degli ingressi; ai principi pluralistici delle democrazie moderne si contrappone un ripiegamento verso il nucleo di omogeneità culturale e religiosa che si pretende costitutivo dell’identità nazionale.

Uscire dalla caverna e liberarsi di quella concezione, tanto radicata, per cui i fenomeni migratori rappresentano un attacco all’appartenenza e all’identità statale, sul presupposto della pericolosità delle circolazioni indesiderate e della difficoltà di controllarle appare, peraltro, particolarmente limitativo se si pensa che già i latini utilizzavano il termine hostis per riferirsi indistintamente non soltanto al nemico, ma anche allo straniero. Hostis è colui che porta guerra e scompiglio, contro il quale si può legittimamente far ricorso alle armi e che si contrappone al civis, il cittadino romano, custode dei mores maiorum, ovvero di quei valori e di quelle tradizioni che costituivano la colonna portante della cultura e della civiltà romana. In sostanza, già questo termine andava a travalicare i confini personali dello scontro con il singolo e fissava la sua dimensione su un piano superiore, in un senso di contrapposizione rispetto ad un’entità minacciosa, di natura collettiva, contro cui era necessario opporsi manu militari per difendere sé stessi e la propria identità culturale.

Di fronte alla pressione sociale scaturente dai nuovi flussi migratori, dunque, ancora oggi le comunità nazionali tendono a chiudersi, assumendo atteggiamenti difensivi, dominati dalla paura che il pluralismo etnico, culturale e religioso, anziché fornire un contributo all’evoluzione sociale, determini il depauperamento dell’identità del popolo ospitante.

A tal proposito, il sociologo Zygmunt Bauman ha scorto nel flusso dei migranti e, in particolare, di chi cerca rifugio dalle minacce di persecuzione, una delle paure che caratterizzano la moderna società liquida poiché ricorda, con invadenza, ai nativi, la fragilità dell’esistenza umana e la loro debolezza fisiologica.

Il concetto di “paura liquida” intesa come quella paura “…diffusa, sparsa, indistinta, libera, disancorata, fluttuante, priva di un indirizzo o di una causa chiari; la paura che ci perseguita senza una ragione, la minaccia che dovremmo temere e che si intravede ovunque, ma non si mostra mai chiaramente…”, offre, dunque, uno strumento concettuale prezioso per comprendere le dinamiche sociali e giuridiche che permeano la gestione dell’immigrazione.

Oggi, in un periodo di ossessioni securitarie, la retorica della sicurezza diventa un terreno fertile per abbassare, e talvolta per dimenticare, le garanzie fondamentali della civiltà giuridica, prima tra tutte quella della libertà personale, sancita dall’art. 13 della Costituzione.

Certamente accogliere e integrare non è semplice. Bisogna farlo evitando la distruzione della civiltà che accoglie, ma al tempo stesso assicurando il rispetto dell’altro; tenendo conto dei costi dell’integrazione e della sostenibilità degli stessi, ma mantenendo come valore primario quello della centralità e dignità della persona. Si tratta, dunque, di una sfida complessa che coinvolge pubbliche amministrazioni e governi non sempre in grado di affrontarla in maniera bilanciata.

A quali valori e principi ispirarsi nella pratica contemperazione di tutte le esigenze in campo? Occorrono equilibrio, prudenza, discernimento. Perché interessi ed esigenze coinvolte, qui solo riassunte, vengano fatte oggetto di una tutela effettiva, in grado di garantire un equo bilanciamento.

Introduzione, da Tesi di laurea in Diritto Penale, Facoltà di Giurisprudenza, Corso di Laurea in Scienze dei Servizi Giuridici, UniBa, 19.02.2024