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Curare in vita o anticipare la morte? | Diritto | Eugenio Scagliusi

Eugenio Scagliusi

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Curare in vita o anticipare la morte?

Curare in vita o anticipare la morte?


Chissà se la sigaretta, ultimo desiderio prima di una esecuzione, resterà immagine cinematografica, oppure se il futuro non ci condurrà a riconsiderarla quale prassi da assecondare come ultima estrema volontà della persona interessata. Di certo il tema dell’eutanasia continua a dividere e dal confronto emergono sempre profonde contraddizioni.

Una recente sentenza della Corte di Cassazione, n. 48944 del 23 Dicembre scorso, offre occasione di riflessione. In breve, l’imputato principale era un medico accusato di avere somministrato ad alcuni pazienti in stato terminale un cocktail di farmaci per accelerarne il decesso. A completare l’accusa, episodi di falsità nelle cartelle cliniche. Si sarebbe così ottenuto il fine della presunta “buona morte” attraverso la somministrazione di medicinali appositamente combinati per ottenere un effetto letifero e indolore. Di che si tratta? Omicidio volontario o, per l’appunto, adempimento di una estrema ultima volontà affidata dalla persona interessata?

In primo grado i giudici avevano condannato all’ergastolo l’imputato. Altrettanto avevano fatto i giudici d’appello. Alla Corte, dunque, il compito di esaminare le questioni principali, cioè il collegamento (nesso causale) tra la somministrazione dei farmaci e l’evento realizzato (la morte), nonché la sussistenza del dolo (la previsione e volizione dell’evento) quale elemento soggettivo dell’imputato.

In estrema sintesi, per giudicare la prima questione occorreva stabilire se l’evento (la morte) si sarebbe realizzato comunque e nello stesso arco temporale, a prescindere dalla somministrazione dei medicinali, ma per altre cause. Riguardo il secondo aspetto, invece, occorreva accertare se l’imputato avesse avuto effettiva intenzione di realizzare l’evento (la morte) oppure di evitare le sofferenze di persone colpite da malattie in fase ormai avanzata ed in stadio terminale.

La Cassazione ha dapprima precisato come la disciplina della terapia del dolore sia da tempo regolata per legge (legge n. 38 del 15.03.2010), che indica nelle cure palliative quelle idonee a curare attivamente il malato durante la fase terminale della patologia, laddove risulti accertata la insensibilità ai trattamenti terapeutici ordinari. Per queste ipotesi la legge prevede anche percorsi di assistenza psicologica e di accompagnamento per i familiari del malato. Tuttavia, il presupposto per accedere alle cure palliative è sempre il consenso chiaro e completo da parte del paziente. Elemento, questo, che nel caso qui esposto era del tutto mancato.

La Corte, anche senza dilungarsi su questo aspetto del consenso, ha chiarito come l’anticipazione del decesso della persona determini, in ogni caso, la rilevanza della condotta dell’imputato rispetto a quell’evento. Sicché senza la condotta anticipatoria dell’imputato, l’evento-morte non si sarebbe realizzato in quel modo proprio perché oggetto di anticipazione.

Per quanto attiene, invece, l’elemento soggettivo, per la Cassazione l’unica condizione che legittima il ricorso alla medicina palliativa, anche nelle sue forme più estreme (come la sedazione profonda continua), è il consenso informato del paziente. Solo il consenso informato (peraltro alla base di ogni trattamento medico) rende lecita un’azione che, altrimenti, si qualifica giuridicamente come omicidio volontario.

La Cassazione ha, pertanto, confermato la condanna dell’imputato principale.

Occasioni come questa inducono sempre ad interrogarsi se esista davvero una eutanasia. Per rendere ancora più efficace la questione, evitando l’utilizzo di terminologia che sembra edulcorare un tema così importante, se esista davvero una “buona morte”. Perché vorremmo finanche evitare considerazioni di natura prettamente religiose che pur militerebbero per considerare l’evento “morte” come un percorso da giudicare non solo per il materiale allontanamento di un corpo, ma per un ricongiungimento spirituale ad un’Altra e Superiore comunità. Non ci competono e non ne siamo in grado. Ci chiediamo, però, senza trovare risposte, se possa davvero pensarsi ad una “morte buona”. E come essa si declini e diversifichi. L’unica differenza che scorgiamo è rispetto ad un evento che definiremmo tragico o particolarmente violento rispetto ad una comoda e lenta attesa, priva di sofferenza, nel proprio letto. E buona per chi? Per la persona interessata, evidentemente, nutrendo profondi dubbi che per i suoi cari l’allontanamento possa mai meritare il giudizio di “buono”.

Ogni giudizio è complicato. Sono ben noti i temi delle sofferenze di persone gravemente malate e senza possibilità di guarigione, con percorsi di malattia drammatici che possono evolversi solo nella morte. E sono altrettanto note le scelte di chi alla irreversibilità preferisce consapevolmente la morte. O di farsi aiutare a morire. Magari in apposite strutture all’estero, spesso con l’accompagnamento – anche e soprattutto mediatico – di chi strumentalizza il calvario personale per indurre l’opinione pubblica e la parte politica ad un percorso vietato dalle normative nazionali vigenti.

Quest’ultimo aspetto è ciò che ad ogni occasione ci preoccupa: la strumentalizzazione della sofferenza. Ci sono, al fondo, argomenti di carattere etico, religioso, morale, giuridico, che non si possono minimizzare. Anche senza voler leggere la sentenza che ha occasionato questa riflessione da un punto di vista giuridico, limitandoci alla più comune disamina del fatto, una considerazione ci colpisce e la offriamo alla comune riflessione. Cosa avremmo fatto, come avremmo deciso, se fossimo stati tra quei giudici? Specie se si considera che i collegi giudicanti di primo e secondo grado (corte d’assise e corte di appello di assise) nel caso come quello di cui qui si scrive sono integrati da “giudici popolari”, persone comuni chiamate ad affiancare i magistrati nell’assumere la decisione. Chiunque tra noi, scelto per sorteggio, senza alcun requisito di competenza, come previsto per legge.

Siamo sinceri: la morte spaventa sempre e tutti. Al pari del suicidio. Altro che “buona morte”. E ci spaventa soprattutto nei casi di morte somministrata – più o meno violenta, come per i casi di condanne capitali o di adempimento di volontà estreme – rispetto al pur doloroso evento autosomministrato, come nei suicidi. Strane, però, certe nostre sensibilità: ci emozioniamo (sia chiaro, giustamente) per le morti nel Mediterraneo, di chi con assoluta e piena consapevolezza (dunque con risoluto consenso) affronti i pericoli di quei viaggi di speranza, spesso lunghissimi; ma sembriamo giustificare certe morti indotte e non naturali, a volte programmate e ben organizzate, con finali comunicato-stampa ed autodenunzia da parte dell’accompagnatore.

Mentre chi scrive offre questi dubbi ai lettori rispetto all’atteggiamento o al giudizio da assumere, una paura – tra molte altre – lo assale: quella del rischio che si possa ridurre tutto il misterioso miracolo della vita alla soddisfazione di un’ultima sigaretta, un contentino, una specie di compensazione ultima. La parte finale della vita alla stregua di una condanna? Chissà… Una cosa è certa ed è che la vita non è un film, né una rèclame pubblicitaria. Passi pure e potremmo discutere con chi storce il naso rispetto a considerare la vita come dono; ma chissà se saremmo in grado di farlo con chi la consideri alla stregua di una condanna. Scusate, ma non ne siamo capaci.

(pubblicato nella rivista "Vivere In", 6/2022, pag.  18 - 19)

https://www.vivere.in/2023/02/rivista-vivere-in-n-6-2022/