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Dalla "stepchild adoption" all’autonomia morale. | Diritto | Eugenio Scagliusi

Eugenio Scagliusi

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Dalla "stepchild adoption" all’autonomia morale.

Dalla "stepchild adoption" all’autonomia morale.


Le cronache parlamentari e politiche di questo inizio anno riferiranno ai posteri del dibattito sul “disegno di legge Cirinnà”, così identificato dal nome del relatore, la senatrice Monica Cirinnà, che propone la disciplina delle unioni civili. Tra le altre previsioni normative, quella che estende alle unioni civili la cosiddetta stepchild adoption, “adozione del figliastro”, possibilità già prevista dall’art. 44 della legge sulle adozioni. La nuova normativa consentirà l’adozione del bambino nell’ambito di una unione civile, cioè tra persone dello stesso sesso. Nessuna modifica al testo sulla fecondazione assistita. Una previsione che introduce di fatto nell’ordinamento la pratica dell’utero in affitto.

Ma, leggendo quelle cronache, il pensiero si distrae. Perché prova a non lasciarsi coinvolgere e trasportare nel dibattito ideologico sotteso dal disegno di legge. Piuttosto, in ciò forse condizionato dalla personale contrarietà a tal genere di pratica locatizia (ma spiegarne il perché produrrebbe ben altre riflessioni), il pensiero si rivolge al rapporto tra coscienza o volontà morale e norma giuridica. Dunque, sul rapporto, che incombe alla coscienza del soggetto, cioè di ognuno di noi, di accettare la norma giuridica o di operare per modificarla.
Perché, in fondo, ognuno di noi è sempre moralmente al bivio tra l’accettazione della norma e, dunque, eseguirla attenendosi ad essa, ovvero l’adoperarsi in qualche maniera per la sua riforma; ovvero ancora, quale ultima possibilità residuale, il ribellarsi a tal punto da opporvisi strenuamente, con tutte le proprie forze, con spirito rivoluzionario, finanche rischiando sofferenze vitali o addirittura la propria vita.

Anche la legge morale, ciò che intimamente guida le segrete scelte del soggetto, è sempre qualcosa di enunciato, di derivato, di inculcato con autorità. Può trattarsi – certo – della autorità familiare, quella proclamata dalla voce paterna o materna, come quella autorità degli usi comuni e tradizionali, come quella derivante dai discorsi o dagli insegnamenti di un pensatore, di un educatore, di un profeta, di un dio…
Quel che conta è che essa, legge morale, venga accettata dal soggetto non per il fatto stesso che venga enunciata da qualcuno, chiunque sia; bensì perché la si possa ritenere giusta e degna di essere accettata come tale. Non vale l’accettarla come “regola morale”, cioè come regola suprema del nostro essere, solo per adesione o – peggio – per timore reverenziale nei confronti di chi la pronuncia. Infatti, mostreremmo debole servilismo nel piegarci ad una forza, politica o religiosa o giuridica che sia, non condivisa dal nostro libero consenso; ma mostreremmo lo stesso servilismo se accettassimo una legge morale solo perché proveniente da questa o quella parte, o dettata da qualche mago o stregone del villaggio, o perché ritenuta valida dal filosofo o pensatore di turno, chiunque sia. La vera regola morale, quella valida per il soggetto, è quella che, dopo essere stata meditata, sia stata riconosciuta tale da doverla fare assolutamente propria. Quel che conta non è ripetere che tale regola sia assoluta ed universalmente valida, ma capire, nel proprio complesso processo interiore, il perché essa merita di esserlo.

Il soggetto ha l’onere di provare ad opporsi sia agli errori della ribellione incondizionata, sia del servile quietismo. Non bisogna fidarsi troppo della propria testa, ma neanche pensare troppo con la testa altrui. Bisogna, invece, produrre sforzi infiniti per formare una propria coscienza, frutto di riflessione, indagine, ragionamento. Una propria coscienza che sia in grado, nel tempo, nella storia, di produrre il vero ordine civile. Il vero ordine civile è quello prodotto da leggi derivanti dalle migliori ragioni: quelle che andrebbero fatte proprie e condivise anche se appartenessero e provenissero dall’ultimo tra gli uomini.

Dunque, il caso della possibile italica stepchid adoption non si differenzia affatto dagli altri casi, infiniti, che richiedono – ed eventualmente reclamano – non certo barricate ideologiche prive di profonde indagini conoscitive, bensì proprio tale attento illuminato sviluppo analitico sul possibile valore universale conseguente la scelta normativa. Concludendo per la consapevole condivisione della previsione normativa, ovvero per la ferma opposizione riformatrice.
La seconda possibilità è quella che la mia coscienza sente di produrre. Si tratta, per l’appunto, di una opposizione non indotta, ma che origina dall’osservazione pratica della vita della persona umana. Di ogni uomo, di ogni soggetto: del suo nascere, del suo divenire, del suo naturale svilupparsi nella storia.

Ecco, a questo punto posso anche spiegare le ragioni della mia contrarietà alla stepchild adoption. Anzi, l’ho già fatto.

La possibilità di adottare figli, soprattutto quelli di uno dei due coniugi, è ipotesi già disciplinata dalla legge sulla adozioni. La nuova previsione, estendendo l’adozione anche alle unioni tra persone dello stesso sesso, legittima per le stesse la pratica di “affittare” da terze persone un utero per lì consentire l’incontro o lo sviluppo successivo di gameti sessuali, oppure di utilizzare il proprio utero per lì consentire l’incontro o lo sviluppo successivo di gameti sessuali di persona ovviamente terza rispetto alla propria compagna.
Già il termine “affitto” mi disturba. Perché giuridicamente, a differenza della locazione, “affitto” si riferisce alla utilizzazione di un bene o di una universalità di beni di terzi a scopo produttivo. Pensare ad un uso produttivo di un utero, al pari di una azienda, una fabbrica o di una catena di montaggio, mi sembra abominevole e mortificante per il ruolo della donna e del suo possibile essere mamma. La prospettiva non cambia se si pensa alla possibilità che, a fronte di una unione tra due donne, ad essere “affittato” non sia un utero ma qualche milionata di spermatozoi finiti in provetta. Peggio ancora se per quell’utilizzo, per l’affitto, venisse versato un corrispettivo ed ancor più se si trattasse di un corrispettivo in danaro!

Mi interessa poco quel che accade nelle scelte sessuali di ognuno di noi. Mi interessa valorizzare il naturale percorso storico che vede la nascita della vita a seguito dell’incontro amorevole di un uomo e di una donna. Favorire quel percorso, attraverso provvidenze e salvaguardie familiari, costituisce a mio parere “ordine civile”. Non condanno chi opini diversamente, ma non ho voglia di essere preso in giro da chi, attraverso l’alibi della tutela di presunti diritti, anche degli omosessuali, intende in realtà soddisfare interessi egoistici a scapito dei più deboli: i figli, che si ritroveranno senza un padre o senza una madre, ma con un doppione. Per rimediare si potrebbe pensare, per assurdo, alla possibilità che quel figlio, diventato adulto, possa scambiare il doppione, come avrà sicuramente imparato a fare da ragazzino con le figurine degli album. Perché non dovremmo tutelare anche questa sua libertà?

Rivendico, allora, la mia autonomia morale rispetto ad una previsione normativa che non sentirò mai propria e che, anzi, ritengo vada opposta in ogni modo.