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L'aborto è un diritto? | Diritto | Eugenio Scagliusi

Eugenio Scagliusi

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L'aborto è un diritto?

L'aborto è un diritto?


Una sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti, la n. 597 del 24 giugno 2022, ha ravvivato anche in Italia un vivace dibattito sul tema dell’aborto ed in particolare la facoltà (o il diritto?) delle donne di ricorrervi senza limiti.

In un diffuso contesto culturale mondiale tendente ad ampliare sempre più e legalizzare l’aborto, la pronunzia della corte statunitense prova a limitarne la pratica diffusione affermando che la Costituzione U.S.A. non garantisce il diritto delle donne al libero aborto e, pertanto, la disciplina della interruzione volontaria della gravidanza va rimessa alla legge dei singoli Stati, e cioè al popolo e ai suoi rappresentanti, i quali possono limitarlo in vario modo senza violare la Costituzione. Nella sentenza si legge: “…L’aborto pone una questione morale profonda, la Costituzione non proibisce ai cittadini degli stati di regolamentare o proibire l’aborto...” e che va restituita “…questa autorità al popolo e ai suoi rappresentanti eletti…”.

La sentenza produrrà certamente una riduzione del numero degli aborti legali negli Stati Uniti, dove alcuni (prevalentemente Stati del Sud e del Midwest, a maggiore presenza politica del Partito Repubblicano) avevano già introdotto leggi più restrittive. Non altrettanto potrà accadere per il numero degli aborti clandestini. Sta di fatto che certamente la sentenza accresce il solco ideologico già profondo – negli U.S.A. ancor più che in Italia – tra le scelte pro life o pro choice, a favore della vita o a favore della libertà di scelta. Con strumentalizzazioni che comportano divisioni sempre più radicali tra conservatori e progressisti, riducendo così le possibilità di dialogare alla ricerca di soluzioni politiche che affrontino le ampie problematiche alla base della interruzione della gravidanza: le provvidenze a tutela del lavoro delle donne, i presìdi di assistenza sanitaria pre e post gravidanza, i più disparati disagi e difficoltà giovanili.

Allargando la visione a quanto prevalentemente accade nelle diverse parti del mondo, sono almeno tre gli interessi (termine più neutro rispetto a quello di diritti, che richiedono un riconoscimento da parte degli ordinamenti giuridici) in rilievo: quello alla nascita del concepito, quello della libertà di scelta della donna (anche a non essere condizionata nella sua vita da figli non voluti), quello dei diversi Stati, divisi tra esigenza di controllo delle nascite per evitare sovraffollamenti ed esigenza di ridurre i rischi dell’aumento dell’età media della popolazione (anche per ragioni previdenziali e di spesa sanitaria). Sono, già questi, interessi pressoché incompatibili. Soprattutto perché molto diversi tra loro, inerendo scelte personali (della donna) o di chi non è neanche in grado di porle (il concepito) o di natura demografica e sociologica (degli Stati). Peraltro, alcuni interessi potrebbero essere soddisfatti senza ricorrere all’aborto; al contrario di quello del concepito, che può essere soddisfatto solo lasciandolo nascere.

In Italia la presenza di una disciplina sulla interruzione della gravidanza, la legge 22.05.1978, n. 194, che ha depenalizzato l’aborto, rende meno condizionato ideologicamente il dibattito rispetto a quello statunitense. La nostra legge consente l’aborto a determinate condizioni, ma non per questo lo riconosce come un diritto. Tuttavia, proprio a seguito della sentenza statunitense sono emerse richieste di modifica delle norme vigenti proprio al fine di riconoscere il diritto all’aborto.

Sono richieste che non ci persuadono e che, anzi, si pongono in antitesi con la esigenza di tutelare e difendere la vita umana non come diritto individuale bensì come questione di più ampio rilievo sociale. Non è in discussione la decisione della donna di abortire, legalmente o clandestinamente, quanto l’esigenza di accompagnare quella decisione liberandola da condizionamenti sociali, economici e culturali, tra cui anche una certa indisponibilità alla assunzione delle responsabilità che la gravidanza comunque comporta. La disciplina attuale è ben consapevole della rilevanza sociale dell’aborto, nonostante ampie parti di quella disciplina, con particolare riferimento proprio alle tutele (economiche, sociali, sanitarie, assistenziali in senso ampio) di cui la donna necessita, siano rimaste ad oggi inattuate.

Per la verità, la legge n. 194/1978 prevede la possibilità (il diritto?), pur limitata temporalmente nel termine di 90 giorni dal concepimento, che la donna, “…che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica…”, possa ottenere la interruzione della gravidanza presso le strutture autorizzate. Ma non è mai stato chiaro se e chi dovesse accertare, con esito positivo, della oggettiva (e non soggettiva) esistenza della condizioni di “serio pericolo” per la salute fisica o psichica, mancando peraltro i criteri identificativi. Oppure se tale accertamento si presenti e superi il limite temporale esistente.

Certamente appaiono incomprensibili le istanze di chi, per evidente condizionamento ideologico, vorrebbe generalmente classificare l’aborto tra i diritti umani fondamentali in capo alla persona (la donna), esaltandone la libertà di determinazione e senza limiti di sorta. In pochi, poi, osservano che una ampia liberalizzazione dell’aborto, ovvero la sua effettiva trasformazione in diritto, potrebbe condizionare negativamente la pur esistente esigenza sociale della riproduzione generazionale. Senza trascurare come proprio la legge n. 194/1978 vede finanche nell’iniziale affermazione di principio (art. 1) la “…tutela della vita umana dal suo inizio…”, non già la sua interruzione, così lasciando trasparire un interesse primario e superiore, costituito dall’aspettativa (dal diritto?) del nascituro a nascere e vivere.

Ed ecco che il punto nodale ritorna ad essere non già la qualificazione di interessi o diritti, finanche di rango costituzionale, ma la tutela della vita umana, la sua protezione, unitamente all’accompagnamento della donna nelle sue scelte. E quello che ci preoccupa è proprio la mancanza di questo accompagnamento. Perché cogliamo enormi difficoltà nei lavori dei consultori, spesso neanche contattabili telefonicamente; nella esposizione informativa che varrebbe ad ottenere i consensi della donna interessata, soprattutto se minore o comunque di giovane età; nella diagnosi dello stato di salute fisica o psichica della donna; nella esposizione delle conseguenze, fisiche o psichiche che siano, della eventuale interruzione.

Insomma, occorre allontanare il tema dell’aborto da ogni sorta di condizionamento ideologico, mirando proprio a ciò che primariamente si vorrebbe tutelare: la vita. Che sia del nascituro o che sia della donna, ma sapendo ben discernere i vari casi ed allontanando possibilmente i ricorsi alle pratiche interruttive che appaiono piuttosto casi di deresponsabilizzazione o finanche capricciosi, entrambi risolvibili senza ricorrere, per l’appunto, a pratiche che ottengono l’unico effetto di privare il nascituro della possibilità di nascere. Vale, questo, ad eliminare una possibile vita? Al pari del fine vita, sembrerebbe come se per risolvere una pur difficile equazione scritta su una vecchia scolastica lavagna, la si cancelli.  

(pubblicato nella rivista "Vivere In", 5 - 5/2022, pagg. 5 - 7)

https://www.vivere.in/2022/12/rivista-vivere-in-n-5-2022/